L’operetta secondo Barrie Kosky

Alla Komische Oper di Berlino continua il trionfo di Oscar Straus nell’attualizzazione berlinese di Barrie Kosky

Eine Frau die weiss was sie will (Foto Ivo Freese)
Eine Frau die weiss was sie will (Foto Ivo Freese)
Recensione
classica
Berlino, Komische Oper
Eine Frau, die weiss, was sie will / Die Perlen der Kleopatra
12 Settembre 2019 - 14 Novembre 2019

Non c’è alcun dubbio che la formula che ha riportato ai successi di un tempo la Komische Oper di Berlino dandole un profilo forte e originale nella ricca offerta di teatro musicale della capitale tedesca sia l’operetta. Un genere da sempre coltivato nella sala di Behrenstraße ma riportato ai fasti dell’età dell’oro con un tocco molto creativo, dall’artefice della rinascita, Barrie Koskyattento più alle ragioni dello spettacolo che alla resurrezione museale del genere. Un occhio di riguardo nella sua Komische Oper, Barrie Kosky ce l’ha da sempre per l’operetta jazz, versione berlinese nei caotici anni di Weimar di un genere nato in Francia, fiorito nell’Austria delle mille etnie di Sissi, e strangolato nella Germania nazista post-1933 per sradicare le sue profonde e antiche radici ebraiche. 

Barrie Kosky un australiano a Berlino

Ebreo era anche il viennese Oscar Straus, raccordo musicale fra gli ultimi fuochi della grande tradizione viennese e l’effimera fiammata dei ruggenti anni di Weimar. È soprattutto una figura fondamentale per il verbo della Komische Oper secondo Kosky, che nel gennaio del 2015 trasforma l’esile commediola musicale da telefoni bianchi, tenuta a battesimo nel 1932 nel berlinese Metropoltheater (allora costola della Komische Oper), Eine Frau die weiss was sie will (Una donna che sa quel che vuole), in una irresistibile farsa per due straordinarie incarnazioni contemporanee di Fregoli. Ed è un trionfo che dura ormai da quattro stagioni.

La donna che sa quel che vuole è Manon Cavallini, matura stella dell’operetta, che dichiara di amare più la pratica che la filosofia e che ha eletto la storica libertina Ninon de Lenclos suo nume tutelare. Gestire cinque amanti non le basta: sogna di vivere una rinnovata primavera con lo sconosciuto che ha già visto 99 volte dallo stesso palchetto il suo spettacolo e quella sera festeggerà la centesima con un invito galante. Ma su quell’uomo, Raoul Severac, ha messo gli occhi anche la figlia Lucy Paillard, che non sa di essere la figlia della Cavallini. La madre si ritira e la figlia impalma Raoul, salvo meditare un tradimento per ripicca con l’amico campione di tennis Fernand Maupreux credendo il Raoul preso ancora dalla Cavallini. Ma la madre è madre anche nell’operetta e la Cavallini sventa i piani fedifraghi della figlia, irretendo il candidato amante e salvando così il matrimonio di Lucy. Agnizione tardiva delle due donne, perdono, lieto fine. 

A tenere il conto dei ruoli ci si imbroglia: in locandina ce ne sono 21 ma gli interpreti sono due. La Cavallini è Dagmar Manzel, una vita fra teatro “serio” e operetta (e anche parecchio cinema), che è pure papà Paillard, Raoul Severac e altri quattro. Lucy Paillard è invece Max Hopp, già funambolico John Styx “doppiatore” nell’Orphée aux Enfers a Salisburgo, che si traveste per tutti gli altri 20 personaggi spesso anche nel classico doppio uomo-donna da cabaret berlinese (e ci sta pure una caustica parodia di una monumentale Bartoli stralunata). Poco importa la trama che è giusto un pretesto per l’infilata di canzoni – dal couplet a Ninon de Lenclos a “Warum soll eine Frau kein Verhhältnis habe” (Perché una donna non deve avere altre relazioni), oltre ovviamente al leitmotiv che dà il titolo all’operetta – proposte con infaticabile energia dai due straordinari performer, che non sbagliano un colpo in quel frenetico e irresistibile viavai sull’avanscena a sipario chiuso attraverso una semplice porta “va e vieni” come in un ristorante di classe. 

Un anno dopo, nel dicembre del 2016, Barrie Kosky ripesca un altro successo questa volta degli anni viennesi di Straus, Die Perlen der Cleopatra, che vide la luce al Theater an der Wien nel 1923 ma sbarcata già nel 1924 al berlinese Theater am Nollendorfplatz. L’impianto è decisamente più classico ma Daniel Bunsch e David Cavelius rimettono mano a quel che è sopravvissuto della partitura originale iniettando robuste dosi di jazz e irresistibili parodie dei ballabili dell’Aida verdiana per il frenetico ensemble di danzatori guidati dall’estro coreografico di Otto Pichler. È un grande spettacolo con cori e balli e un profluvio di costumi coloratissimi (di Victoria Behr, bravissima) come in antico Egitto lisergico che per Cleopatra si coprono di luccicanti strass, un pelo “camp” perfetto per stemperare l’eccesso di zucchero delle riesumazioni fedeli del genere. Le scene invece (di Rufus Didwiszus) fan pensare piuttosto alle geometrie déco delle Ziegfeld Follies del vecchio cinema in bianco e nero. 

Ma che Egitto d’Egitto! Le due grandi firme dell’operetta da esotismo balcanico, ossia Julius Brammer e Alfred Grünwald, imbastiscono l’esile trama attorno a una Cleopatra in fregola circondata da amanti inetti – il vanesio soldato Silvius, più attratto dalla dama di corte Charmian, e il profumatissimo principe persiano Beladonis, più attratto dal suo flauto – e l’intrigante gran visir Pampylus. A poco serve l’elisir d’amore delle perle sciolte nel vino rosso dalla regina (che l’alcol sembra apprezzare non poco): lei fa di necessità virtù e si piglia quell’improbabile Marco Aurelio, duce degli invasori romani con piume di struzzo rosse sui cimieri. Ad maiora! 

Gran diva di questo improbabile e divertentissimo varietà è ancora lei, Dagmar Manzel, come l’altra donna (che però sa un po’ meno quel che vuole) a calcare le orme della mitica Fritzi Massary, senza freni e spiritosissima blaguese, capace di spaziare disinvoltamente fra il registro alto della “quasi” opera e quello basso del doppio senso sconcio con la “schizofrenica” complicità della perfida gattina Ingeborg dalla lingua più affilata delle unghie (in realtà la mano sinistra guantata della Manzel in versione guignol). I suoi partner maschili devono soprattutto farle da spalla e lo fanno tutti con grande verve come Dominik Köninger, un Silvius che sa anche cantare (papà del ruolo fu Richard Tauber), come Johannes Dunz, Beladonis, mentre Peter Renz, nel doppio ruolo di Marco Antonio e del congiurato “revolucionario” Kophra, e Stefan Sevenich, l’intrigante Pampylos, hanno soprattutto la classe dei caratteristi di razza. La seconda donna, Talya Lieberman, è una pepatissima Charmian, abile con gli acuti e con la tromba, che, con sordina, suona come da jazzista provetta. 

Sia per Eine Frau che per Cleopatra la direzione musicale è affidata all’esperto del genere Adam Benzwi che guida con gusto, leggerezza e una buona dose di energia l’Orchestra della Komische Oper, davvero sorprendente per la capacità di attraversare credibilmente repertori distantissimi. Ma nella Komische Oper secondo Barrie Kosky la diversità è la virtù che più importa. È normale che se un giorno si suona Straus, il giorno dopo capita di suonare Henze

Pubblico folto e variegato e, come detto, trionfo assicurato.

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