Ritorno in Europa aspettando il nuovo
Impressioni sulla Biennale Musica 2019 dedicata da Ivan Fedele all’Europa dopo le tappe asiatiche e americane
Dopo l’Asia e il poco avventuroso viaggio nelle Americhe della scorsa stagione, Ivan Fedele riporta il vascello della sua Biennale Musica in Europa, territorio in tutta evidenza più confortevole per il compositore al suo ultimo anno del triennio più recente alla guida della manifestazione veneziana. Non sarà probabilmente ricordata per slancio innovativo la sua gestione, incline piuttosto alle conferme a alle incoronazioni di personalità già consacrate, come il Leone d’Oro 2019 George Benjamin, di cui ha già riferito Enrico Bettinello. A Ivan Fedele andrà ascritto almeno il merito di aver portato finalmente in Italia un capolavoro come Written on Skin, riconosciuto giustamente fra le migliori produzioni liriche del XXI secolo, come ricordava lo stesso Bettinello. Per il resto, andrà anche sottolineato che Fedele non ha tradito le linee programmatiche annunciate in occasione della sua rinnovata nomina nel 2016 dal Presidente della Biennale Paolo Baratta, in scadenza a gennaio (ma in molti ritengono più che probabile un quinto mandato), secondo cui il triennio 2017-19 doveva attenersi alle “linee che hanno caratterizzato le attività recenti, per consolidarle e integrarle con iniziative interne o collaterali volte a favorire lo spirito di ricerca e ad arricchire il nostro rapporto con il pubblico”.
Fra le iniziative più apprezzate della gestione Fedele c’è la promozione di nuove creazioni con la Biennale College, che anche in questa edizione ha chiuso i 10 giorni della Biennale Musica al Teatro Piccolo Arsenale. Atto di fiducia nel futuro del genere, anche i quattro brevi atti unici scelti da Ivan Fedele per l’edizione 2019 non si impongono per l’originalità di linguaggio musicale e meno ancora per una drammaturgia plausibile, nonostante l’impegno nella realizzazione musicale dei brillanti strumentisti dell’Ensemble Novecento dell’Accademia di Santa Cecilia e la cura negli agili allestimenti dei registi Francesca Merli e Pablo Solari. Convincono davvero pochissimo i lavori dei due giovani compositori italiani. Puccinismo fuori tempo massimo per l’idillio eco-distopico di Trashmedy del compositore Alessandro De Rosa su un libretto di Mimosa Campironi, e un assurdo più prossimo alla goliardata che alla zoologia impazzita di Jonesco lo stravagante Tredici secondi o un bipede implume ma con unghie piatte su libretto di Fabrizio Funari e musica di Marco Benetti, troppo debole nel dare forma compiuta al gioco polistilistico. Non meno stravagante la metafora oscura (se mai di metafora si tratta) di Ab ovo, ribellione di una segretaria che scatta quando un enorme uovo non passa lo screening di un opprimente computer con il raffreddore, scritto in un linguaggio inventato da Liron Barchat e messo in musica con scarsissima originalità nello sbiadito gioco dei fiati dall’israeliana Talya Eliav. Relativamente più riuscito soprattutto per la complessa trama musicale è sembrato La meccanica del colore del portoghese Nuno Costa, nonostante la gracilità del libretto di Madalena dos Santos, che immagina il classico scienziato pazzoide che per “vedere i colori del mondo” apporta continuamente modifiche a un robot umanoide alle prese con una tela da dipingere. Chiude il suicidio sacrificale del vecchio scienziato per la perfezione della creatura (“Consegno il mio dolore al mio erede. Dalla mia sofferenza nascerà la bellezza”) contenuto dall’affermazione umanistica dell’assistente (“Tutto succede se io lo permetto. Io sono il suo dio. Io lo tengo in vita.”). Insomma, c’è ancora speranza.
Il mondo dei robot è anche il motivo ispiratore di Thinking Things, installazione piuttosto amatoriale con estensioni robotiche, video, luci ed elettronica del grande vecchio dello sperimentalismo in musica George Aperghis presentata in prima italiana al Teatro alle Tese. Prodotto dall’IRCAM come già Machinations presentato alla Biennale Musica nel 2015 in occasione del conferimento del Leone d’Oro al compositore, questo progetto scenico propone una performance per quattro interpreti/performer (Johanne Saunier, Richard Dubelski, Lionel Peintre e ovviamente l’inseparabile musa Donatienne Michel-Dansac) e ingenue protesi bioniche fra riflessioni futuristiche svolte sul filo del paradosso e non prive di ironia accompagnate da una soundtrack elettronica di sapore un po’ datato.
Più interessante il microritratto di Aperghis proposto dal brillante pianismo di Mariangela Vacatello nella prima parte del concerto nella Sala degli specchi di Ca’ Giustinian. Dans le mur per pianoforte ed elettronica del 2007 mette in scena il confronto fra l’interprete e il muro di frammenti pianistici dell’elettronica come in un drammatico gioco di specchi musicali. Più classico nell’ispirazione Scherzo del 2017 specie per i nervosi sintagmi, che sono la cifra più autentica del compositore. Completavano il programma il riuscito Quarto quartetto di Alessandro Solbiati, pezzo di ispirazione classica nel grande equilibrio delle forme, presentato in prima assoluta in una esecuzione di magistrale chiarezza dal Quartetto Prometeo (Giulio Rovighi e Aldo Campagnari al violino, Danusha Waskiewicz alla viola e Francesco Dillon al violoncello) e UNRISEN per pianoforte, quartetto d’archi ed elettronica di Marco Momi, di ispirazione meno originale e marcatamente convenzionale nell’interazione piuttosto meccanica fra strumenti tradizionali ed elettronica.
Discorso simile per le sfibrate elaborazioni elettroniche live di Gianvincenzo Cresta di De Infinito del 2016 proposto in un intrigante accostamento con la Missa da Cappella a sei voci a sei voci fatta sopra il motetto “In illo tempore” del Gomberti di Claudio Monteverdi in un concerto piuttosto indecifrabile nell’architettura di questa Biennale Musica. Decisamente infelice la scelta della location, normalmente destinata alla prosa, il Teatro Goldoni, per l’acustica eccessivamente secca, che mortificava i ricchi intrecci contrappuntistici monteverdiani e frustrava non poco l’impegno dei sei vocalist dell’Ensemble Vocale Spiritodiretto da Nicole Corti per non dire dell’accompagnamento del concerto delle viole da gamba de I Ferrabosco (difficile credere che nessuna fra le 148 chiese veneziane fosse disponibile).
Anteprima di stagione per l’Orchestra Regionale della Toscana prima dell’apertura ufficiale il prossimo 25 ottobre a Firenze con un la prima assoluta di In cerchi concentrici per tromba e orchestra di Caterina Di Cecca, già allieva alla Biennale College nel 2016. Al Teatro alle Tese l’eccellente compagine toscana diretta da Peter Rundel teneva a battesimo il nuovo pezzo del veneziano Claudio Ambrosinidal titolo Rappresentazione di anima e di corpo per soprano, clarinetto basso e orchestra. Nessun riferimento a Emilio de’ Cavalieri o alle sacre rappresentazioni medievali, ma esercizio quasi materico sulla fisicità sonora del corpo orchestrale e della sua sintesi nella spiritualità del suono, prossimo all’idea di William Blake, evocato dal compositore, secondo cui il corpo è la porzione dell’anima che percepiamo attraverso i sensi. Molto efficace il trattamento orchestrale integrato dalla calda sonorità del clarinetto basso (di Armand Angster), mentre un po’ didascalici risultavano gli esercizi vocali del soprano (Françoise Kubler). Il pezzo di Ambrosini era impaginato fra Hysteresis di Michel van der Aa, in questo caso a basso contenuto tecnologico, alle prese con i sinuosi virtuosismi del clarinetto (il bravo Michele Marelli) in gara con gli echi della traccia registrata e il nervoso trattamento orchestrale, e l’accademico Konzert in einem Satz di Wolfgang Rihm, quasi un lungo lamento per violoncello (l’assai poco ispirato Fernando Caida Greco) e ensemble orchestrale trattato secondo i modi più caratteristici del compositore tedesco.
Come le edizioni più recenti, anche questa Biennale Musica 2019 è sembrata nel complesso una rassegna piuttosto timida sul piano dell’innovazione (qui la recensione di Paolo Carradori), sia delle proposte musicali che della riflessione, più che mai necessaria in tempi di cambiamenti tumultuosi per una rassegna rivolta al contemporaneo. Si abbattono i confini fra le arti e la creazione artistica tende sempre più a sfuggire a rigide classificazioni ma la Biennale mantiene la sua rigida divisione fra settori che rischia di apparire obsoleta e di soffocare le spinte al nuovo. I segnali verso un vero rinnovamento però non mancano. Il Leone d’Oro della Biennale Arte 2019 a Sun & Sea (Marina) degli artisti lituani Lina Lapelyte, Vaiva Grainyte e Rugile Barzdziukaite, installazione “vivente” che sfrutta il linguaggio del teatro musicale (e definita “opera-performance” dai suoi autori), ha gettato un seme. Un altro seme è stata la recente creazione a Mestre del Centro d’Informatica Musicale e Multimediale (CIMM), attraverso cui la Biennale intende sostenere l’attività di ricerca e di sperimentazione delle diverse articolazioni dell’istituzione veneziana. Saprà la Biennale di domani raccogliere i frutti?
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