Le tentazioni rock e interculturali della Biennale di Venezia
Songbook del Leone d’Argento Matteo Franceschini e Nomadem di Joël Bons alla Biennale Musica non convincono del tutto
Anche un piccolo spicchio di un Festival corposo e complesso com’è quello della Biennale Musica di Venezia può riservare spunti di riflessione e approfondimento.
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Due concerti vicini – il 3 ottobre al Teatro Toniolo di Mestre Songbook (per quartetto rock, ensemble amplificato ed elettronica) di Matteo Franceschini, il 4 al Teatro Goldoni di Venezia Nomaden (per violoncello ed ensemble interculturale) di Joël Bons – potrebbero essere affiancabili, letti in controluce, condividendo entrambi la scelta di avvicinare linguaggi e culture diverse. I presupposti, i materiali, i percorsi, il contesto, sono ampiamente lontani ma la ricerca è la stessa, sperimentare una possibile travaso, accostamento, contrasti e fusioni di linguaggi di matrice diversa.
Matteo Franceschini, fresco Leone d’Argento della 63esima edizione del Festival, somma al quartetto rock (pianoforte/tastiere; basso elettrico/live electronics – a cura dello stesso compositore; tiorba/chitarra elettrica; batteria/percussioni) l’Icarus Ensemble (flauti-oboe/corno inglese-clarinetti-tromba-trombone) e il quartetto d’archi Cantus Ensemble (da Zagabria). Confermando anche il riconosciuto aspetto teatrale delle sue opere, un costante gioco scenografico di luci, colori e fumo accompagnano tutta l’opera.
Avvicinare i suoni, l’ambiente della musica colta al rock non è operazione nuova. Basterebbe ricordare al percorso all’incontrario di Frank Zappa che proprio l’anno scorso la Biennale omaggiò con la proposizione del suo Yellow Shark. Con tutte le dovute contestualizzazioni del caso quell’opera possiede ancora vitalità, visionarietà, quell’ironia spiccata ed estroversa tipica della genialità zappiana.
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Franceschini lavora molto sul suono – molto fascinoso il lungo bordone introduttivo con la tiorba che lo attraversa e lo graffia –, sui possibili equilibri tra le diverse componenti strumentali. Batteria, basso e chitarra elettrica con una costante estensione dell’elettronica come saturazione del sottofondo, evocano gli elementi più riconoscibili dell’estetica rock, una pulsione regolare, gli strappi distorti della chitarra. Il pianoforte, le tastiere dai sapori vintage, si muovono sopra la massa sonora con leggerezza, svolazzi minimalisti. Quartetto d’archi ed ensemble sviluppano aspetti melodici, sobri ed eleganti, pochi contrasti e frizioni, ma fondamentalmente rimangono lontani dal quartetto rock. La rotazione in quadri rigidi, dedicati ai diversi contesti strumentali, ampia i rischi di una certa meccanicità su tutta l’operazione. Il rock depurato dai propri aspetti destabilizzanti di musica contro sintetizzato in una formula, l’aspetto contemporaneo esposto con arrangiamenti sviluppati su neutri canovacci melodici non fanno bene ad un’opera coraggiosa nei presupposti ma fragile nello sviluppo rispetto ad altre prove ben più convincenti del compositore trentino.
Il compositore olandese Joël Bons è sempre stato affascinato dalle musiche etniche di tutto il mondo, in particolare dell’Estremo Oriente, nel 2002 fonda L’Atlas Ensemble, formazione composta da musicisti europei e asiatici, pensata proprio per approfondire, sperimentare l’accostamento dei suoni etnici con la musica di oggi. Nomaden è stata commissionata dalla Cello Biennale Amsterdam e composta per il talentuoso violoncellista Jean-Guihen Queyras, che l'ha eseguita per la prima volta ad Amsterdam nel 2016.
Sho, sheng, doyra, tar, erhu, tanto per citarne alcuni, sono strumenti un po' misteriosi, rari da vedere e sentire. All’interno della formazione sviluppano visioni, suoni che trascinano in mondi ancestrali, come isole di pensiero lontane. Ma superata questa curiosità, come l’approccio a episodi virtuosistici notevoli, si scopre nell’ascolto che nella trama dell’opera, scritta con equilibrio, momenti avvincenti, eleganti contrappunti, motivi danzanti e ricchezza timbrica, gli strumenti etnici ci paiono come ospiti. Fanno da contrasto a volte stridente nei collettivi, espongono la propria poetica nella rotazione dei soli, ma rischiano di risultare come esposti come oggetti esotici in una bella vetrina. L’avvicinamento agli europei è episodico, non convincente: Bons non riesce a raccontarci il calore dei popoli, delle culture straordinarie che rappresentano. Per fortuna davanti a tutti c’è Queyras. Il suo violoncello mantiene alto con un suono straordinario e un gesto avvolgente l’andamento di un’opera forse troppo distaccata, strutturata per riuscire a fondere suoni, storie e linguaggi.
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