Hammerklavier, duecento anni ma non li dimostra
L’affascinante lettura storica di Ronald Brautigam in un recital al Beethovenfest
Il tema del Beethovenfest 2019, Mondschein – il ‘motto’ scelto dalla direttrice artistica Nike Wagner per creare un ‘fil rouge' che orientasse il pubblico attraverso le varie proposte – ha comportato, tra le varie cose, anche una significativa presenza del pianoforte nel calendario dei concerti. Il famoso titolo, dato dal critico Ludwig Rellstab alla seconda delle Sonate “quasi una fantasia” dell’op. 27, ci ricorda infatti che Beethoven fu soprattutto e innanzitutto un grande pianista e che nel corpus delle sue 138 composizioni numerate le trentadue sonate per pianoforte occupano una posizione decisiva per capire l’evoluzione stilistica dell’artista. Tra gli appuntamenti dedicati allo strumento a tastiera non poteva peraltro mancare l’omaggio a un altro eminente pianista del sec. XIX: affidata a un funambolico e instancabile Louis Lortie, l’esecuzione integrale degli Années de pèlerinage di Franz Liszt (il 20/9 nella raccolta cornice dell’auditorium della Beethoven-Haus) ha costituito davvero un’esperienza mistica per gli ascoltatori, quasi tre ore di musica per ripercorrere i viaggi che avevano portato il musicista ungherese a visitare la Svizzera e l’Italia, attraverso i virtuosistici pezzi dedicati ai Sonetti del Petrarca o alle fontane di Villa d’Este. Ma, nella visione a 360° che Nike Wagner ha voluto offrire anche quest’anno al pubblico del Beethovenfest, i richiami al satellite su cui l’uomo è sbarcato cinquant’anni fa sono arrivati anche dal repertorio del Novecento, grazie in particolare all’appuntamento col Pierrot lunaire di Schönberg, proposto dal soprano Sarah Maria Sun (nel concerto del 21/9 che ha visto la partecipazione dell’Ensemble modern diretto da HK Gruber) con estrema attenzione a quel canto parlato – lo “Sprechstimme” – che caratterizza questo lavoro, uno tra i più significativi dello scorso secolo.
Tra gli appuntamenti del Festival – ormai stabilmente collocato nel mese di settembre (si è aperto il 6 e si concluderà domenica 29) – particolare rilievo ha avuto il recital che Ronald Brautigam ha voluto dedicare alla celebre Hammerklavier in occasione dei duecento anni dalla sua pubblicazione. Nella sala principale dello Stadtmuseum di Siegburg, poco distante da Bonn, il pianista olandese ha eseguito la sonata op. 106 su uno strumento storico, realizzato dal celebre costruttore viennese Conrad Graf, del quale Beethoven possedeva un esemplare (oggi conservato nella collezione della Beethoven-Haus). Prima di accostarsi a quella che è la più ampia e complessa sonata scritta dal musicista tedesco, Brautigam ha proposto all’ampio pubblico che riempiva la sala, altre due sonate, ovvero l’op. 31 n. 3 e – quasi d’obbligo visto il ‘motto’ di quest’anno – la già citata Sonata quasi una fantasia op. 27 n. 2. In entrambi i lavori, scritti nei primissimi anni del sec. XIX, le particolari sonorità dello strumento costruito da Graf hanno contribuito non poco a restituire nel migliore dei modi gli effetti che la scrittura del compositore di Bonn mirava a ottenere e che sul moderno pianoforte si rischia talvolta di veder annegare nella considerevole quantità di suono prodotta: dall’eleganza con cui si viene a configurare il secondo tema nel movimento iniziale dell’op. 31 n. 3, agli accenti ritmici degli sforzati che compaiono sia nello Scherzo che nel trascinante Presto con fuoco conclusivo, per non parlare del fascino che viene ad avvolgere l’inizio della Mondschein. Qui infatti lo strumento storico non solo permette di comprendere e applicare l’indicazione dell’autore nel primo movimento, «si deve suonare tutto questo pezzo delicatissimamente e senza sordino», ma consegna all’ascoltatore moderno un affresco sonoro composito, nel quale la soffusa e lunare pagina iniziale lascia poco a poco il passo al rianimarsi dell’Allegretto e infine al turbinio del Presto agitato. Forte della sua esperienza con gli strumenti storici, Brautigam ha saputo valorizzare appieno queste due pagine, prima di cimentarsi con l’ultimo imponente lavoro. Una sfida che ha richiesto notevole impegno, quasi le intenzioni di Beethoven trascendessero le possibilità fisiche dello strumento che aveva a disposizione, ma che ha consentito al pubblico di vivere un’esperienza paragonabile forse a quella che si ha durante la proiezione di un film in lingua originale. Incantevoli i risultati espressivi ottenuti soprattutto nel terzo ampio movimento della Hammerklavier, dove l’autore sembra voler continuamente riprendere il discorso da capo, non pago della bellezza del semplice tema di questo Adagio. I segni della lotta tra l’esecutore e lo strumento si sono viceversa manifestati nei passaggi più arditi del primo e dell’ultimo movimento, dove Brautigam ha dovuto impegnarsi non poco per ottenere quelle quantità di suono che comunque Beethoven aveva in mente portando verso il limite fisico dello strumento – a volte anche oltrepassandolo – la sua scrittura pianistica. E tuttavia proprio in questo ‘scontro’ tra le intenzioni del compositore e la materia che le mani del pianista vanno a plasmare è emerso in tutta la sua bellezza il senso di questa celebre sonata, il significato più profondo delle conquiste ‘pianistiche’ e musicali cui mira, significato che forse un moderno pianoforte rischia di confondere, dovendosi questa musica adeguare all’algida perfezione tecnologica di uno Steinway.
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