Il blues di Paul Bley non se ne andrà mai
Il fenomenale trio di Paul Bley con Gary Peacock e Paul Motian torna in When Will the Blues Leave (ECM), registrato nel 1999 a Lugano
Paul Bley se n’è andato tre anni fa, nel gennaio del 2016, e con lui se n’è andata via una scheggia decisiva nella storia del pianoforte jazz.
Mentre, di questi tempi, vengono ripubblicati anche i seminali dischi in cui un giovanissimo Bley esplorava assieme alla allora consorte Carla le inusitate nuove risorse dei sintetizzatori, accogliamo come una vera e propria benedizione dischi come questo, una ripresa dal vivo del marzo 1999 effettuata da Werner Walter all’Aula Magna STS di Lugano, coproduzione dell’etichetta bavarese con la Radiotelevisione svizzera.
Paul Bley ha al suo fianco Gary Peacock al contrabbasso (il musicista che Bley “condivideva” con Jarrett nel simmetrico piano trio del bizzoso pianista statunitense) e Paul Motian alla batteria, sezione ritmica di un’elasticità e di una capacità d’interplay al limite del telepatico: necessaria, quando si aveva a che fare con le dita e il cervello di Paul Bley, in movimento a velocità da Formula 1.
Siamo abituati a tutto, e tutto è passato in questa formula santificata, celebrata, ingessata ma con mille epigoni, dopo Oscar Peterson, Bud Powell, Thelonious Monk e Bill Evans. Il piano trio è un banco di prova e una trappola, un rassicurante tappeto volante e un trabocchetto insidioso, quando la poetica non è più che salda.
Poi ci sono i guastatori scelti invasi dalla poesia, come Paul Bley: che quando inizia una frase – sia un arpeggio prolungato, sia una sequenza di cellule ritmiche che sembrano sondare il terreno, sia una singola nota stagliata e fatta risuonare con tutto il suo corteggio di armonici – non va mai dove, per logica e per consuetudine jazzistica (sì, esiste anche quella) ti aspetteresti andasse. Paul Bley è uno spirito libero e che ha liberato la musica da una dei suoi fardelli più ingrati, spesso: la prevedibilità. Accarezza un tema, lo scompone come in una tela cubista, ne isola qualche tratto melodico, attacca a scavare in profondità e… lascia perdere. Per trovare, un secondo dopo, un’altra imprevedibile oasi di bellezza.
Qui succede, ad esempio, nell’incredibile “non conclusione” della sua "Flame", che cripta gli accordi iniziali di "My Way": arriva in fondo, manca solo la nota di tonica che, dylanianamente, “riporti tutto a casa”, e Paul Bley non la suona. Lascia tutto in sospeso. Va a cercare un’altra casa dove albergare la sua musica.
C’è molto dello spirito irridente e un po’ minaccioso dei bluesman che tendevano trabocchetti all'ascoltatore, in questo disco tesissimo e spontaneo al contempo: e piace pensare che il titolo di Ornette Coleman scelto per il disco, ed eseguito qui prima di una stupefacente conclusiva gershswiniana "I Loves You, Porgy" (mai sentita così, davvero), sia una dichiarazione dì intenti: “Quando mai se ne andrà il blues?”
Con il Signor Paul Bley, per fortuna, mai.