Il diabolico Angelo di Prokof’ev

La regia di Emma Dante esalta gli aspetti inquietanti e misteriosi dell’Angelo di fuoco, con la direzione analitica e allo stesso tempo scatenata di Alejo Pérez

L'angelo di fuoco ( Foto Yasuko Kageyama)
L'angelo di fuoco ( Foto Yasuko Kageyama)
Recensione
classica
Teatro dell’Opera di Roma
L'angelo di fuoco
23 Maggio 2019 - 01 Giugno 2019

Composto tra il 1919 e il 1927, L’Angelo di fuoco fu rappresentato solo dopo la morte di Prokof’ev, nel 1954 a Parigi in forma di concerto e nel 1955 a Venezia finalmente in forma scenica: la spiegazione che generalmente se ne dà è che fu iniziato negli anni in cui nell’Urss l’arte poteva permettersi di essere rivoluzionaria ma fu terminato quando cominciava a imporsi il realismo socialista e quindi fu messo al bando. Ma anche in Italia L’Angelo di fuoco incontrò delle difficoltà. Negli anni Sessanta, quando l’Opera di Roma lo mise in programma, ci furono proteste da parte di ambienti cattolici (pare che sia intervenuto il Vaticano stesso) e si dovette rimandare la prima, che avvenne nel 1966, in una stagione in cui erano in programma altre tre opere del Novecento: la prima romana di Moses und Aron di Schoenberg, la prima italiana del Giovane Lord di Henze e Fedra di Pizzetti. Ora che l’Italia non è più retriva, provinciale, bigotta come allora, non c’è una sola opera del nostro secolo in cartellone… c’è qualcosa che non quadra.

Ma veniamo a questa nuova edizione romana, affidata ad Emma Dante e ai suoi collaboratori Carmine Maringola per le scene, Vanessa Sannino per i costumi e Cristian Zucaro per le luci. La regista siciliana segue abbastanza fedelmente il testo, talvolta in modo quasi letterale, qua e là anche con tocchi di realismo, ma introduce continuamente elementi misteriosi, che rivelano come nelle menti dei personaggi siano estremamente labili i confini tra realtà e allucinazione, tra naturale e sovrannaturale, tra razionalità e follia. È un mondo stravolto, come stravolta è la psiche di Renata, ossessionata dall’immagine di un angelo che le apparve la prima volta quand’era una fanciulla in età prepubere: evidenti le analogie con l’angelo che appariva a Teresa d’Avila. Quest’angelo non è certamente un messaggero divino ma la proiezione delle pulsioni erotiche di un’adolescente, che non possono trovare uno sfogo naturale in un mondo (siamo al confine tra medioevo e rinascimento) che nega e reprime il sesso. E se non bastassero Renata e il suo angelo, quasi in ogni scena un’indovina o un cabalista o un mago o Mefistofele stesso in compagnia di Faust e infine un esorcista intervengono a introdurre irrazionalità e allucinazioni. 

Quell’angelo che dovrebbe esistere soltanto nella mente di Renata, la Dante lo materializza in scena, dandogli un aspetto demoniaco; ha il corpo biancastro e seminudo e una cresta punk, i suoi movimenti sono quelli acrobatici - quindi innaturali e “diabolici” - della street dance. Questo angelo è un’allucinazione di Renata o è reale? Sicuramente reale è il suo potere, che si fa sentire nei principali snodi dell’opera e ne fa una sorta di deus ex machina. È attraverso di lui che Renata coinvolge gli altri nel suo mondo allucinato, portando alla rovina quanti vengono a contatto con lei, come Ruprecht, il cavaliere che vorrebbe aiutarla, e le monache del convento in cui Renata entra nell’ultimo atto. 

Tutto è un incubo, a cominciare dalla sordida locanda del primo atto, simile a una cripta gotica, nei cui loculi giacciono corpi che sembrano cadaveri, ma si animano con movimenti da zombie quando appare l’angelo. Quasi in ogni scena la Dante aggiunge altri personaggi muti, non sempre previsti dal libretto, che hanno l’effetto di amplificare e rafforzare le atmosfere prevalentemente misteriose e inquietanti, ma talvolta anche comiche. Ecco che nell’osteria del quarto atto alcuni avventori picareschi fanno da spettatori ai prodigi di Mefistofele, che lo stesso Faust definisce trucchi da saltimbanco. Quando Renata inizia a parlare di peccato e d’inferno, rivelando i turbamenti religiosi che la condurranno a farsi monaca, cominciano ad apparire personaggi in abito ecclesiastico, che attraversano e riattraversano il palcoscenico, muovendosi veloci e compatti come un plotoncino militare (movimenti coreografici di Manuela Lo Sicco).

Non mancano i consueti riferimenti della Dante alla sua Sicilia: la cripta dell’ultimo atto ricorda le catacombe dei cappuccini di Palermo e Renata, quando alla fine è condannata alla tortura e al rogo dall’Inquisitore, viene agghindata come la statua della Madonna dei sette dolori nelle processioni siciliane.

Questa regia, ricca d’idee forti, originali e molto teatrali, non è mai eccessiva o piuttosto è eccessiva quanto deve esserlo la regia di un’opera come questa. 

La musica di Prokof’ev e il suo libretto abilissimo, conciso e rapido non concedono all’ascoltatore un attimo di rilassamento. È una musica di volta in volta violenta e aggressiva o aspra e tagliente o spettrale e agghiacciante, sempre sorretta da una tensione ritmica spinta al limite. È un incrocio in teoria impossibile tra l’espressionismo, per come rivela la deformità della psiche umana, e il futurismo russo, per il frequente procedere dell’orchestra come una macchina, indifferente ai sentimenti (ammesso che si possa parlare di sentimenti) dei personaggi: è una macchina infernale, che precipita l’ascoltatore in un mondo stravolto e mette in vibrazione ogni suo singolo nervo.

Il direttore Alejo Pérez, ormai ben noto e apprezzato dal pubblico dell’Opera, ne ha dato una lettura molto dettagliata, partendo da un’analisi accurata di ogni minimo particolare, per giungere allo scatenamento sonoro richiesto di alcune scene, come l’orgiastico finale, che sono il risultato della somma di quei dettagli. Ottima la risposta dell’orchestra e del coro, preparato da Roberto Gabbiani. 

Di buon livello complessivo il cast. Ewa Vesin si confronta con la parte vocalmente gravosissima di Renata e ne esce in modo più che positivo, per la forza con cui rende il personaggio, sebbene la voce non abbia la forza per sormontare sempre i momenti di maggiore scatenamento orchestrale. L’altro ruolo principale è affidato a Leigh Melrose, molto puntuale nel rendere Ruprecht, cavalleresco ma in realtà intorbidato dal desiderio di trarre vantaggio dalla fragilità di Renata, che apparentemente si propone di proteggere. Gli altri personaggi appaiono solo per una scena, ma hanno parti comunque importanti e impegnative: per ragioni di spazio ci si deve limitare a citare con una menzione speciale Mairam Sokolova (Indovina), Sergey Radchenko (Agrippa), Maxim Paster (Mefistofele) e Goran Juric (Inquisitore).

Teatro pieno, seppure non esaurito, con un pubblico attento e, tranne alcune defezioni che si possono contare sulle dita delle mani, conquistato sia da Prokof’ev che dalla Dante.

 

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