Livio Bartolo, una promettente bruttezza
Ugliness Is a Beatiful Thing, secondo lavoro del chitarrista Livio Bartolo con la sua Variable Unit, è un disco notevole
A volte la bruttezza è una cosa bellissima. A volte non essere la copia di una didascalia è necessario, vitale. A volte gli errori sono interessanti, come sosteneva Monk (sicuramente uno dei fari che illuminano questo bel disco del chitarrista Livio Bartolo, a nome Livio Bartolo Variable Unit). A volte un sestetto può suonare come una piccola orchestra. A volte bisogna ricordarsi che nel jazz, in certo jazz, anche nella nostra derelitta Italia (dove il ministro dell’Istruzione del governo del cambiamento dice che la scuola dovrà attraversare il suo ennesimo inverno "scaldandosi con la legna che c’è", e questo la dice lunga sullo stato comatoso a cui è ridotto il nostro povero paese per tutto ciò che attiene la cultura) resta viva ancora e sempre la possibilità di scoprire, di sorprendersi.
Livio Bartolo, tarantino, ventisettenne, sei dischi all’attivo, alunno di Gianni Lenoci (maestro, oltre che di Livio Bartolo anche di Francesco Massaro, qui intervistato qualche tempo fa) leader di questa Variable Unit che con Ugliness Is a Beatiful Thing, secondo capitolo della propria avventura, sforna un lavoro davvero notevole.
«Ho cominciato a scrivere molto presto, intorno ai 16 anni», dice Livio, qui in veste di chitarrista e compositore. Tra gli interrogativi sornioni di "Where Am I?", che suonano felicemente vicini al mood obliquo ed enigmatico di Henry Threadgill e passi notturni e teatrali tra Archie Shepp e Lounge Lizards (i dieci minuti di puro fascino di "Eureka!", con un drive di basso felino e uno swing da fire music dei tempi belli), il disco – di durata breve (meno di mezz’ora, e non è un difetto, perché ci lascia con la voglia di ascoltarlo ancora ed ancora) – vede coinvolto un doppio quartetto scintillante e in pieno stato di ispirazione.
Oltre al leader a chitarra elettrica, composizione e arrangiamenti, Simone Deve al pianoforte, Andrea Esperti al contrabbasso, Gianni La Notte alla batteria e una sezione fiati composta da Pietro Corbascio (tromba), Alessandro Semeraro (tromba), Francesca Galdi (sax tenore), oltre a Marco Calabretti alla seconda batteria.
Nella title track la forma si sfrangia, si apre, fiorendo in mille rivoli, dopo l’esposizione di un tema nitido e dotato di begli spigoli, con un respiro che sembra quello di un Nino Rota perso nelle idee di Schoenberg, ombre di free, fughe e ansie novecentesche («il lavoro è frutto di uno studio che ho fatto su dodecafonia e serialismo»): un mondo intero in soli tre minuti, come una nuova Liberation Music Orchestra.
Inconfondibile il tocco arguto e sottile di Lenoci al piano in "Se guardi la mia faccia del 13 non troverai traccia", che indugia tra densi silenzi e un mood felicemente in bilico tra dissonanza e attesa, con un dialogo circospetto tra pianoforte e chitarra, che fanno a gara a chi trova gli spigoli più nascosti: praticamente un pezzo di contemporanea, aereo e imprendibile, affacciato su secoli di musica e su bellissimi precipizi, che si chiude nel mistero prima di una risonanza e poi di una fugace, imprevedibile chiusa.
Le sfingi della quarta traccia lasciano poi spazio a una canzone, "Guernica (Flashbacks)", nuda e antica, dai vaghi sapori folk trafitti sul finale da urla ed eruzioni lontane, capace di aprirci le porte di una casa disadorna e ora disabitata. Perché a volte è necessario ricordarci che dobbiamo ricordare. E perchè a volte la bellezza si nasconde anche e soprattutto nel lato oscuro delle cose («Ho voluto usare due quartetti che suonassero assieme dialogando/scontrandosi», dice Bartolo). Il disco si chiude con il languido discorrere di "Eve", che se in un passaggio ricorda addirittura i Led Zeppelin di "Stairway to Heaven", in realtà nulla a che fare con quei mondi ma sembra anzi una sorta di risposta bianca ed europea a certe malinconie brasiliane.
Ed allora ricordiamocelo questo nome, Livio Bartolo: viste le premesse ne sentiremo ancora parlare.