Franco D'Andrea, l'esplorazione continua
Intervals II è il secondo capitolo dell'ottetto di Franco D'Andrea, dopo Intervals I di qualche mese fa
La vita è una prova, una improvvisazione continua, pur seguendo pattern che possono essere culle o gabbie. Sta all’interprete della partitura decidere da che parte stare. Dedicarsi alla calligrafia o all’arte del racconto? Ripetere o creare?
L'importante è cercare sempre di non adagiarsi troppo sulle certezze acquisite e, se si fa arte, rifuggere la facile comodità: sembra questo un po’ il messaggio, di densa sostanza quasi filosofica, che anima l’instancabile Franco D’Andrea, che non smette di vestire i panni del rabdomante, alla ricerca di acqua fresca negli alvei a volte rinsecchiti del jazz.
Intervals II segue di pochi mesi Intervals I, registrazione di un concerto all’Auditorium di Roma, (votato come miglior disco italiano al TopJazz 2018, mentre D’Andrea è stato votato come miglior musicista) e porta alla luce le prove del giorno precedente e delle ore precedenti il concerto.
Il mood è il medesimo: ancora quell’imprendibile quid di benvenuta, languida stranezza, come un funerale nella New Orleans post uragano in un futuro distopico (le lame sottili dell’elettronica e le interferenze alla chitarra che espandono perfettamente la trama sonora) con un’eco lontana di sirene che non si capisce se mitologiche o urbane e iperreali. Un suono denso, stratificato eppure lieve, spiccioli di Monk (il rapido lampo di "Epistrophy in Monodic", la seconda traccia) la storia e le radici che entrano nel flusso come sillaba di un discorso libero, mutevole.
Graham Moncur III (torna in mente il mood classicamente obliquo di un capolavoro come Some Other Stuff del 1965) che convive con la pigrizia felina del downtempo elettronico in questo universo parallelo senza alcun conflitto – del resto in the beginning there was rhythm, e quindi a questo giro è afrofuturismo suonato da un ottetto bianchissimo, come una marching band su Saturno.
Vengono in mente anche i dischi (bellissimi) degli Spring Heel Jack su Thirsty Ear di diversi anni fa, tra il 2000 e il 2008, con William Parker, Han Bennink, Matthew Shipp e Wadada Leo Smith, tra gli altri. Scaramucce free e un baccanali fulminei e gioiosi come una versione mondata dall’apocalisse interiore dell’Electro Acoustic Ensemble di Evan Parker ("Intervals 5"), parentesi dove si esibisce il suono che cerca di rapprendersi o di liquefarsi, come la radiocronaca in diretta di una metamorfosi, di una evoluzione. La materia è viva, pulsante, non sempre nello stesso modo avvincente ("Intervals 6", finché non molla gli ormeggi, verso la fine, oppure "Slow Five", prescindibile), ma capace poi di entrare a fondo con domande che entrano sotto pelle e per cui sappiamo che non ci sono risposte e va bene così ("Intervals 7").
Come lavora il fiume carsico della memoria nel jazz? Il jazz stesso, è il suono di un inizio, di una fine?
Cos’è la storia, cosa si sedimenta nella lingua di chi ancora vuole cercare una via tra composizione, improvvisazione, pagando tributo ai giganti del passato ma cercando di andare avanti? Come lavora il fiume carsico della memoria nel jazz? Il jazz stesso, è il suono di un inizio, di una fine? Come tradurre in musica la babele di suoni da cui siamo bombardati oggi? Come rendere viva e non polverosa la straordinaria letteratura della musica creativa ? In che modo muoversi tra archivio ed esplorazione?
Le tracce di questo disco, come del suo precedente sono una delle possibili risposte a queste domande. Risposte scritte con talento enciclopedico, scrupolo, curiosità onnivora e nessuna spocchia da un musicista che non smette di cercare, accompagnato da sette musicisti che svolgono alla perfezione il loro compito: Andrea Ayassot a sax alto e soprano, Daniele D’Agaro al clarinetto, Mauro Ottolini al trombone, Enrico Terragnoli alla chitarra, Aldo Mella al contrabbasso, Zeno De Rossi alla batteria e Luca Roccatagliati all’elettronica.
In alcuni frangenti ascoltiamo takes differenti di brani già apparsi nel disco di qualche mese fa ("m2+m3", "Air Waves", "Afro abstraction"), ma le versioni non suonano mai identiche, sono gemelli eterozigoti questi due lavori, il DNA che li informa è il medesimo ma ognuno ha un quid unico, qualche indefinibile dettaglio che lo rende quello che è. In questo volume ad esempio spicca una versione di "Turkish Mambo" di Lennie Tristano del 1955, il primo brano jazz dove venne utilizzata la sovraincisione, sovrapponendo più tracce di pianoforte. L’infernale e vertiginosa poliritmia dell’originale viene felicemente aperta e scomposta in uno shuffle dove è il trombone di Ottolini a seguire le orme di Tristano mentre d’Andrea accenna solamente frammenti del tema e tutto intorno è un fiorire di ipotesi, più che un radicarsi di certezze.
Paradigmatico del modus operandi del musicista di Merano: uno che non percorre le solite orbite e, dopo essere giunto vicino al perigeo e aver esplorato stelle e pianeti, viaggia ancora libero nello spazio aperto, inventa nuove storie pescando nella tradizione ("Old Jazz") e sa infondere nuovi vocaboli a libri che sono scritture sacre, a cui essere riconoscenti certo ma mai devoti in modo scolastico, perché la musica creativa è invenzione e non standard.