Arriva sul finire dell’anno un disco importante e originale come quello dei BS10, tentet guidato dal baritonista livornese Beppe Scardino. Con lui una bella selezione di alcuni dei migliori elementi della scena jazz italiana, dai colleghi di ancia Dan Kinzelman e Piero Bittolo Bon, i trombettisti Mirko Cisilino e Mirco Rubegni, Glauco Benedetti alla tuba, Gabrio Baldacci alla chitarra, arrivando alla sezione ritmica composta da Simone Graziano alle tastiere, Gabriele Evangelista al contrabbasso e Daniele Paoletti alla batteria.
Il disco, pubblicato dalla Auand, si chiama Live In Pisa, anche se una sola traccia è tratta dal concerto tenuto nella città toscana nell’ottobre dell’anno scorso. Le altre provengono dalla residenza preparatoria dei giorni precedenti, un progetto sostenuto da Pisa Jazz con generosa visione strategica.
Sfaccettato, irrequieto, il disco è un intenso susseguirsi di situazioni, a volte apertamente corali, altre volte più ellittiche, in cui i differenti elementi (elettrico e acustico, ad esempio) trovano un originale dialogo, un percorso tra scrittura e libertà che si fa portatore di molti segni sonori.
Per conoscere meglio il progetto abbiamo fatto una chiacchierata con Beppe Scardino.
Come nasce l'idea di un tentet, una formazione così impegnativa?
«Non ti saprei dare una risposta precisa, anche se ho sempre amato gli organici allargati. Negli ultimi anni l’unico progetto da leader che ho portato avanti è stato il mio trio: forse sentivo la mancanza della caciara! Un’altra bella esperienza recente che mi ha fatto tornare la voglia di scrivere per un numero consistente di persone è stata la Tower Jazz Composer Orchestra, l’orchestra residente del Torrione di Ferrara con cui ho suonato per un paio d’anni».
Come hai lavorato al materiale musicale?
«Un grande elemento d’ispirazione è stato il basket, sport che ha costituito una delle parti importanti della mia vita fino ai 18 anni e che ho recentemente ritrovato: uno dei brani più riusciti del disco (“One For KD”) è dedicato a un grande giocatore dei giorni nostri, Kevin Durant. Piero Bittolo Bon ha scritto recentemente che questo disco esplora molte sfaccettature del concetto di “intensità” e credo che sia molto azzeccato: uno degli obiettivi era quello di dare una “botta” all’ascoltatore, sotto vari punti di vista. Penso ci siamo riusciti anche se forse abbiamo esagerato qua e là».
«Mi rendo anche conto che compositivamente sono stato abbastanza influenzato dal lavoro con gli On Dog di Francesco Bigoni e Mark Solborg. In particolare ho deciso di scrivere un pezzo sui clusters di 3 clarinetti bassi (“Verticamera”) perché avevo sentito l’effetto meraviglioso che si creava già con due clarinetti bassi su un brano di Mark. Su “Tre” ho invece forse involontariamente plagiato tre note di un brano di Francesco e me ne sono reso conto mesi dopo: gliel’ho detto, non si è arrabbiato».
Sono tutti brani nuovi?
«I brani in questo disco sono stati scritti nell’arco di tre anni, alcuni sono riadattamenti (con molti cambiamenti) di brani che avevo scritto senza avere in mente questa formazione in particolare. Mi piace molto cannibalizzare i miei brani, crearne di nuovi strappando brutalmente parti di altri. È comunque una pratica diffusa: mi vengono in mente Charles Mingus e Tom Waits».
L'aspetto elettrico/elettronico della sezione ritmica è dichiarato: come si inserisce questa scelta timbrica e espressiva nel tuo percorso compositivo?
«Da una parte avendo sempre lavorato sui contrasti, mi è sembrata una scelta naturale quella di contrapporre l’aria di una sezione fiati così ampia a una certa ruvidità elettrica della sezione ritmica. Dall’altra negli ultimi anni mi sto interessando molto alla tecnologia in campo musicale e all’elettronica in genere, e devo dire che dopo anni il mio spirito di studente di musica si sente rinfrancato da quest’incontro. Ho anche seguito un corso online molto ben fatto sulla sintesi del suono usando Reaktor (uno strumento molto potente di programmazione di sintetizzatori): è stata un’esperienza inaspettatamente formativa che mi permette di guardare al suono sotto una prospettiva diversa. Quindi volevo in qualche modo che quella componente fosse presente in questa musica».
Come ci sei riuscito?
«Nelle fasi iniziali di concepimento del progetto avevo avuto la malsana idea di programmare con Reaktor appositi sintetizzatori da far suonare a vari membri del gruppo. Sarebbe stato un suicidio logistico! Sono molto bravo ad avere poco senso pratico, pensa che avevo anche pensato di utilizzare dei palloni da basket nel brano dedicato a Kevin Durant».
Come si relaziona il materiale scritto con le possibilità improvvisative?
«Direi in modo abbastanza convenzionale, almeno in relazione al mio percorso. C’è molta scrittura direi e strutture lunghe e definite; ci sono assoli su un giro armonico, assoli su riff sghembi, momenti di uno strumento in solitaria. Le improvvisazioni collettive che possono apparire free in realtà non lo sono o almeno non fino in fondo: in "Tre" c’è un relazionarsi a un re bemolle che incombe su tutto il brano; nella sezione iniziale di “Patchouli” c’è un incastro armonico poliaccordale molto liquido che da una sensazione di free che in realtà non c’è; su “Giant Steps” avevo semplicemente detto di improvvisare collettivamente pensando cubisticamente a quel famosissimo brano».
Se si pensa a formazioni con dieci elementi vengono in mente lo storico Tentet di Teddy Charles che incise negli anni cinquanta, ma anche, più recentemente, la formazione chicagoana di Peter Brötzmann. Quali sono stati i tuoi riferimenti "sonici" nel pensare questo lavoro?
«A livello conscio devo dire nessuno. Ho pensato più alle categorie universali della percezione: contrasti, intersezioni».
Il disco nasce da una residenza alla Chiesa di Sant'Andrea di Pisa, con il supporto di Pisa Jazz. Quale l'importanza delle residenze nel processo creativo?
«Le residenze hanno un’importanza fondamentale, e spesso, come in questo caso, determinano la fattibilità o meno di un progetto. Sarebbe stato per me molto improbabile riuscire a mettere in piedi questo gruppo solo sulle mie forze e parlo soprattutto di risorse economiche e logistiche. Se Francesco Mariotti di Pisa Jazz non avesse sposato il progetto da subito probabilmente queste idee musicali sarebbero rimaste per aria».
«La residenza credo abbia più un’importanza pratica che creativa, anche se penso si possano fare dei distinguo: per BS10 abbiamo avuto tre giorni di tempo per provare e registrare la musica da zero, per, in sostanza, creare da zero un gruppo (ma avevo messo molto impegno affinché le partiture fossero il più chiare e precise possibile). Ci siamo riusciti anche se è non è stato facile».
Immagino...
«In un contesto del genere, si cerca di far funzionare i brani al meglio, ma non c’è ovviamente molto tempo per varie sottigliezze estetico/creative. Quando invece c’è più tempo si iniziano a instaurare nuove dinamiche ed effettivamente possono emergere aspetti creativi inaspettati. È una pratica molto usata soprattutto nel teatro e nella danza: bisogna essere bravi a calarsi in una dimensione più dilatata nel tempo. Questo non è facile nella mia esperienza: sono talmente abituato alla massima efficienza e a mettere su un repertorio nel più breve tempo possibile che in una dimensione dove si vanno a esplorare aspetti differenti in un arco di tempo più ampio mi è capitato di andare un pochino in corto circuito, credo di dover migliorare per godermi al meglio un’esperienza del genere».
Ricordo che anche con il secondo disco del tuo sestetto Orange Room avevate lavorato in residenza a Venezia, al Teatro Fondamenta Nuove, e si tratta di una pratica che sempre più viene usata…
«Sembra anche a me che la residenza sia una pratica sempre più usata, soprattutto nella musica e soprattutto in Italia. Potrei fare un paragone con la residenza che facemmo con Orange Room, che giustamente mi ricordi: in quel caso il gruppo era fortemente rodato, avevamo già fatto un disco e suonavamo insieme già da 4/5 anni. Anche la musica di quel disco in particolare era già molto rodata. In quel contesto più rilassato abbiamo potuto immergerci nella dimensione (un po’ inquietante devo dire) della musica di quel disco ed avere il tempo di sperimentare con lo studio mobile le migliori soluzioni sonore. In quel caso la residenza non ha fotografato l’inizio di un’esperienza come nel caso di BS10, ma bensì il culmine e la seguente fine: poco dopo decisi di interrompere il gruppo, con i membri sparsi per mezza europa e un’infattibilità logistica».
Nel disco, lo accennavi prima, è inserita anche un'originale rilettura di "Giant Steps": da dove viene l'idea di approcciare una pagina così connotata?
«Mi piace la simbologia, mi piace la matematica, mi piacciono i triangoli: Giant Steps ha sempre avuto su di me un grande ascendente. Da molto tempo volevo prodigarmi in una rilettura e ne è venuta fuori questa decostruzione, rallentando molto la melodia sempre presente che i fiati a turno si palleggiano, e infittendo di tensioni, contrappunti e figure poliritmiche».
Una formazione di dieci elementi è piuttosto difficile da gestire: sono previsti concerti o tour nei prossimi mesi?
«Lo spero, ma sono anche molto realista. Mi piacerebbe riuscirci affinché questo gruppo possa esistere per un altro po’ di tempo… So che è una follia, vedremo».
A quali altri progetti stai lavorando ora?
«A un paio di progetti molto poco jazzistici e molto più elettronici con gestazioni un po’ più lunghe. Poca improvvisazione: produzione ed esplorazioni sonore».
Cosa ascolta Beppe Scardino negli ultimi tempi?
«Negli ultimi tempi (mesi? anni?) ascolto pochissimo jazz, ascolto molte canzoni (di chi fa della canzone un’esplorazione contemporanea), nello specifico Richard Dawson, Timber Timbre, Dirty Projectors, Angel Olsen, Julia Holter, Bon Iver, Scheeweiss und Rosenrot… Ascolto molto hip hop: J Dilla, Common, Slum Village, Mos Def, Kendrick Lamar, e molti altri. Mi sto anche un pochino mettendo in pari con i mostri sacri dell’elettronica, soprattutto Aphex Twin e Autechre. Grazie ai Calibro 35 ho scoperto un Ennio Morricone incredibile che non conoscevo (Un tranquillo posto di campagna, La lucertola, La classe operaia va in paradiso). Diciamo che più vado avanti più mi accorgo di avere lacune enormi, quasi imbarazzanti. Però se prima mi veniva l’ansia di fronte a questo pensiero, adesso me la vivo con molta più filosofia».