Premio Parodi 2018, lo stato della scena world
La Maschera vince il Premio Parodi 2018, Premio della critica a Monsieur Doumani: il racconto del Premio e qualche considerazione sullo stato della world music
Ancora una volta si torna a parlare di premi musicali con il Premio Parodi di Cagliari. Da ormai 11 anni il Parodi è diventato il luogo di ritrovo dei nuovi musicisti che in Italia si riconoscono nella complessa categoria di “world music”. È – allo stesso tempo – osservatorio privilegiato e motore della “scena”, insieme ad altri riconoscimenti e rassegne che hanno scelto di lavorare sugli incroci tra musica “di tradizione” e contemporaneità (ad esempio Folkest e Premio Loano – entrambi partner del premio sardo).
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Ancora una volta, si torna dalla tre giorni cagliaritana, diretta da Elena Ledda e organizzata dalla Fondazione Andrea Parodi, con pensieri e dubbi, e con la consapevolezza che se qualcuno tra qualche decennio dovrà comprendere gli sviluppi di questa musica in Italia nel secondo decennio del nuovo millennio, dovrà probabilmente partire da qui, da chi vi ha partecipato e da chi ne ha scritto.
Vediamo dunque chi erano, i nove participanti al Premio Parodi 2018.
Vincitori sono stati i ragazzi de La Maschera, gruppo napoletano di belle speranze (ne avevamo parlato qui), ed è stata una vittoria meritata. La canzone in gara, “Te vengo a cerca’”, non è in alcun modo la migliore del loro bel secondo disco, Parco Sofia. Tuttavia, la presenza di una parte cantata in wolof (nel disco dal senegalese Laye Ba, a Cagliari dal cantante e autore del gruppo, Roberto Colella) ha probabilmente suggerito di mandare al Parodi quel brano e non un altro. In effetti, difficile dire che c’entri La Maschera con la world music più comunemente intesa… Ma poco importa: il gruppo ha vinto perché sa stare su un palco, e nel corso delle tre serate ha mostrato la solidità di un progetto chiaro e che gira da tempo dal vivo.
L’altro progetto che si staccava nettamente dalla rosa dei finalisti, non a caso premiato con il Premio della Critica assegnato dai giornalisti in giuria, era quello dei Monsieur Doumani. Unici stranieri in gara, i tre ciprioti sono arrivati al Parodi dopo tre dischi già ampiamente premiati e recensiti all’estero. L’esperienza live si vede, e l’organico – tsouras, chitarra e trombone – è bello e originale, così come la musica che produce. Persino il testo della canzone in gara – la tarantella “Gongs”, non certo il loro pezzo migliore ad ascoltare l’ultimo cd – si distingueva da buona parte dei brani dei partecipanti: psichedelico e cinico, racconta probabilmente molto di più della vita di questi tre ragazzi di Nicosia dell’ennesimo testo che parla di Mediterraneo o di migranti (che possono essere pure ben scritti, ma che non mancano davvero mai, né sono mancati quest’anno).
La seconda sera i partecipanti del Premio sono chiamati a interpretare un brano del repertorio di Andrea Parodi, e il trio si è aggiudicato anche la menzione dell’organizzazione per la sua versione di “Abacada”. Meritatissimo, anche in questo caso, il riconoscimento: il come si prende un brano e lo si fa proprio, lo si stravolge nel proprio stile, è uno dei migliori modi per capire se c’è uno stile, un progetto originale. In questo caso c’è: li terremo d’occhio.
Un passo indietro tutti gli altri partecipanti, pur con un livello medio decisamente alto.
Interessante la proposta dei piemontesi DinDùn, con una canzone d’amore molto bella (“L’amur”) e un bel set up, con pianoforte, elettronica e la ghironda elettroacustica di Francesco Busso. Un progetto raffinato, forse non immediatissimo – il che può essere un fattore penalizzante in un contesto come quello di un premio – ma di alto livello. Ben scritta e ben interpretata la canzone di Giuseppe Di Bella, “’Ncucciarisi”, con testo in siciliano scritto dalla cantautrice Valeria Cimò (premiato con l’apposita menzione). Di Bella (già avvistato al Parodi qualche anno fa con il progetto Il Tempo e La Voce) canta con bellissimo timbro. Forse con un po’ di coraggio in più nell’arrangiamento (chitarra, cajon e fisarmonica) il pezzo ne sarebbe uscito anche più valorizzato.
Oltre ai vincitori La Maschera, la quota napoletana al Premio Parodi era completata dai Terrasonora e da Aniello Misto. I Terrasonora – solida e ampia band di nu-folk partenopeo vecchio stile, con sezioni ritmica, chitarra acustica, fiati e due voci – hanno un bel suono di gruppo: una proposta “da piazza”, non particolarmente aliena rispetto ai canoni del genere ma ben suonata. Aniello Misto – turnista già attivo con diversi nomi dell’area napoletana e non solo – propone invece un energico pezzo di atmosfera fusion, con ampio spazio per i suoi virtuosismi vocali (una specie di grammelot) e sul basso, tra riverberi, delay e quant’altro.
Unici sardi in gara, i Kor sembrerebbero piuttosto avulsi dalla scena world: sono un quintetto vocale di formazione lirica. Al Parodi hanno portato un bellissimo brano in logudorese, “Albore”, arrangiato per cinque voci ed elettronica, alludendo qui e là alla musica popolare sarda e con una raffinata scrittura delle parti. La canzone, però, ha funzionato forse meno bene dal vivo rispetto alla versione registrata.
È stata purtroppo penalizzata dall’assenza di Aliou Ndiaye, griot senegalese con cui collabora e autore della canzone in gara, “Nietaan”, l’Ararat Ensemble Orchestra. Fermato da problemi burocratici il cantante, il gruppo ha rimediato con tre voci femminili, ma la formula ha funzionato solo a tratti, rivelando qualche rigidità nella resa live. Qualche rigidità anche per i genovesi Feral Cor, che devono forse rodarsi un po’ dal vivo ma che hanno presentato una canzone davvero ben scritta, “La sajetana”, che farà parte del loro primo LP, previsto per l’anno prossimo.
Il Premio Albo d'Oro assegnato all'organizzazione è andato a Daniele Cossellu, storica voce e animatore dei Tenores di Bitti "Remunnu 'e Locu", visibilmente emozionato. Il cast era completato dagli special guest: il cantante e autore peruviano Jorge Pardo, bella presenza e voce “latina”; e il macedone Stracho Temelkovski, virtuoso polistrumentista e beat-boxer che ha dato saggio di totale controllo sui suoi strumenti e sulla voce (bello il suo set, pur senza emozionare più di tanto). Per l’Italia – oltre alla vincitrice dell'anno scorso Daniela Pes – c’era il duo D’Altrocanto, due ragazze venete che erano forse il nome meno di cartello fra gli ospiti, ma che hanno regalato, con il loro breve set a cappella, il momento più emozionante della serata finale. È confortante vedere che ci sono musicisti giovani che hanno voglia di ascoltare, di studiare e di riproporre la loro versione della musica popolare (italiana e non solo: le D’Altrocanto si sono a lungo formate in Georgia, ad esempio), e di farlo con perizia tecnica e capacità di trasmettere, nella pulizia della performance, il lungo lavoro che c’è dietro.
Il che ci porta alle considerazioni finali. Al Premio Parodi sembrano arrivare pochi progetti come il duo D’Altrocanto (che, se pur invitate come ospiti, non hanno un’esperienza maggiore di quella di buona parte dei partecipanti – anzi). Di fatto, la maggior parte dei brani in gara – quest’anno e negli anni scorsi – ha il suo elemento “world” nell’aspetto linguistico. Se La Maschera o Giuseppe Di Bella cantassero in italiano, non parteciperebbero al Premio Parodi. In altri casi, l’elemento “etnico” sembra essere limitato a qualche colore qui e là: una voce senegalese, un fiato con un po’ di riverbero… è una tendenza che non riguarda solo i selezionati, ma che sembra toccare la maggior parte degli oltre 200 artisti che quest’anno hanno inviato le loro canzoni (posso confermarlo avendo partecipato alle preselezioni). E che, dunque, sembra riguardare la scena contemporanea nella sua interezza.
Non è un male in sé, naturalmente: ognuno può fare la musica che vuole, e c’è spazio per (quasi) tutti sotto l’ombrello del termine “world music”, specie se sanno scrivere belle canzoni in dialetto. E neanche stiamo qui a rimpiangere un tempo vetusto in cui i musicisti italiani suonavano meglio o diversamente, o ancora a lamentarci dei giovani d’oggi (anche perché credo di poter affermare di essere più giovane della maggior parte dei musicisti in gara al Parodi).
Tuttavia, la qualità di una scena si misura anche dalla capacità che ha di spostare in avanti i propri confini, di prendere quello che è stato fatto e di innovarlo, di tradurlo per la contemporaneità con nuove idee e nuove soluzioni. Di studiare le forme della musica popolare (le musiche da ballo, ad esempio) e di partire da lì per scrivere musica nuova. Di prendere uno strumento “popolare” e imparare a usarlo in nuovi contesti, non come colore “carino” da aggiungere. Da questo punto di vista, è molto interessante il lavoro sulla ghironda di Francesco Busso dei Din Dun, ma ha rappresentato – nel contesto del Parodi 2018 – un caso unico fra gli italiani in gara. Non c’erano, fra i partecipanti, neanche un organettista, un suonatore di zampogna, un suonatore di chitarra battente, di lira, di mandola…
Non è la fine del mondo, non è grave: è solo un peccato. In questi ambiti di ricerca – più che nello scrivere l’ennesima canzone in dialetto – ci sarebbero molte cose da dire. A voler studiare, e a volerle dire.
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