Marc Ribot (e Tom Waits) vs. Donald Trump
La canzoni di protesta di Ribot, da "Bella ciao" a una rilettura di "Fischia il vento", con Waits, Meshell Ndegeocello, Steve Earle...
Resistenti Marc Ribot e la sua chitarra lo sono sempre stati. Resistenti all'appiattimento. Resistenti alle buone maniere e ai saggi consigli. Resistenti alle pose, agli accomodamenti, alle ruffianerie. Resistenti all'inutilità (che è il vero male oscuro di questi nostri giorni così pieni di tutto e così pieni di niente).
Questione di fatti, di gesti concreti, non solo di musica. Come quando – correva l'anno 2007 – Ribot fu trascinato fuori dal Tonic in manette, colpevole di avere occupato il locale del Lower East Side di Manhattan per tentare di impedirne la chiusura (il video di quell'arresto gira ancora su YouTube: lo trovate qui). Oppure quando, nel settembre del 2012, per celebrare un anno di Occupy Wall Street, se ne uscì con una versione tutta fuoco e indignazione dell'inno operaio “Bread and Roses”. O infine quando, nel 2015, si espose pubblicamente per difendere il diritto degli artisti al controllo della proprietà intellettuale, in risposta a un'intervista nella quale Steve Albini annunciava la morte del copyright (per un bigino del Ribot-pensiero in materia il testo di riferimento rimane comunque “Masters of the Internet”, registrata con i Ceramic Dog e pubblicata su Your Turn: "We live inside your iPod / we’ve no religion or god / we’re slaves who only live to serve / the masters of the Internet").
Poco da stupirsi, insomma, che i tempi non proprio felici (leggasi Trump) abbiano suggerito al nostro di mettere mano a un disco dichiaratamente politico. Che arriva al culmine di un percorso di avvicinamento alla forma canzone iniziato nel segno della “protesta” (le “protest songs” portate in tour in solitaria qualche anno fa) e che si esplicita ora in un'appassionata riflessione in musica, attraverso i secoli e i continenti, sul concetto di “resistenza”.
Undici i brani in scaletta, affidati alle cure dei compagni di sempre (Ches Smith, Roy Nathason, Curtis Fowlkes, Erik Friedlander, Kenny Wollesen: la New York del jazz è rappresentata alla grande) e a una serie di voci ospiti.
Su tutte – fatalmente, inevitabilmente – quella di Tom Waits, chiamato in causa per una scarna e malinconica rilettura di “Bella ciao” che pare uscita da Real Gone e che arriva dritta dritta al cuore. Rimando palese alla guerra partigiana anche “The Militant Ecologist”, libero riadattamento di “Fischia il vento” impreziosito dalla classe immensa di Meshell Ndegeocello, mentre con “We Are Soldiers in the Army” e la funkeggiante “John Brown”, cantate da Fay Victor e fatte a brandelli nel nome di Ayler dal sax di James Brandon Lewis, è la lotta per i diritti civili degli afroamericani a finire al centro della scena. Decisamente da quelle parti anche la suggestiva “How to Walk in Freedom”, con Fay Victor stavolta a duettare con Sam Amidon, le ombre di Rosa Parks, Emma Goldman e Malcom X a danzare su un tappeto di percussioni e l'arrangiamento a strizzare l'occhio al Richie Havens di “Freedom” e ai Love di “The Red Telephone”.
Dito puntato in faccia a Donald Trump invece con la caustica “The Big Fool”, che Ribot si toglie la soddisfazione di cantare in prima persona, con la furibonda “Rata de dos patas”, classicissimo della messicana Paquita la del Barrio trasformato in un rigurgito di rabbia e disgusto nei confronti del presidente americano, e con la desertica “Srinivas”, interpretata da Steve Earle sulle orme di Blind Willie Johnson ("Dark was the night / cold was the ground") e dedicata a una delle tante vittime dell'odio razziale ("A madman pulled the trigger / Donald Trump loaded the gun").
Resistere, resistere, resistere, disse quel tizio quella volta. Nelle piccole e nelle grandi cose. Nella vita e nella musica.