Romeo Castellucci stravolge il Flauto magico
Regia molto discutibile alla Monnaie di Bruxelles per l'opera di Mozart, che sparisce quasi completamente
Il Flauto magico di Mozart non c’è più, restano solo le arie, sopressi tutti i recitativi, ideati due tempi molto diversi tra loro, il primo tutto in bianco, il secondo con protagonisti veri ciechi e veri ustionati che raccontano la loro storia. Alla fine si prova solo noia e sconcerto.
Tanto di cappello alla Monnaie che ha il coraggio di dare carta bianca a registi innovatori come Romeo Castellucci, ma stavolta il risultato è davvero triste. Castellucci continua la sua esplorazione del significato della malattia e torna a portare in scena persone comuni, in questo caso però profondamente toccate dalla mancanza di vista, e quindi di luce, e dal dolore delle fiamme sulla propria carne che hanno avuto come conseguenza di “donargli” un aspetto profondamente trasformato. Sono le loro prove, per avanzare nella vita non ci sono solo quelle che Tamino e Papageno devono affrontare.
Questa è una possibile chiave di lettura, ma ce ne potrebbero essere altre, ognuno ci può vedere quel che vuole. O anche può non leggerci nulla, come ad esempio nella scena che apre il secondo tempo che mostra delle donne con dei tiralatte, il disagio è palpabile sia sul palco che in sala, il senso più difficile da afferrare. Ma se il significato è sempre una lettura soggettiva, e comunque creare disagio e sconcerto più essere voluto e utile, il punto però è che è difficile dire che si tratta ancora del Flauto magico di Mozart, pur nella interpretazione di Castellucci.
È invece un lavoro di Romeo Castellucci, soprattutto teatrale, dove il regista affronta le sue solite tematiche partendo come pretesto il Flauto magico. Se nel 2014, nel suo precedente lavoro per la Monnaie, Orphee et Eurydice, Castellucci era riuscito a ben armonizzare l’opera di Gluck-Berlioz con la sua ricerca espressiva, stavolta gli innesti restano estranei e la storia originale, per chi non conosce l’opera, risulta incomprensibile per dare spazio alle altre storie che il regista aveva voglia di raccontare, con nuovi testi, lunghi e ridondanti, scritti dalla sorella.
Un peccato anche perché la direzione del maestro Antonello Manacorda è brillante e puntuale, il cast tutto di buon livello, le premesse da un punto di vista musicale e vocale c’erano tutte per regalare una bella nuova edizione dell’opera di Mozart. Ma nella noia e cupezza in cui fa piombare Castellucci, persino la celeberrima aria della Regina della Notte, ben cantata da Sabine Devieilhe, non riesce a coinvolgere, e lo stesso si può dire degli altri interpreti, tra questi da citare almeno i bravi Ed Lyon come Tamino, Georg Nigel come Papageno e Gabor Brets come Sarastro.
Innanzitutto noiosa la prima parte, dominata da danzatori, tutti si muovono in modo affettato come belle statuine, anche i cantanti, con costumi che vanno dall’ispirazione settecentesca a quelli succinti del Crazy Horse, piume ovunque, tutto giocato in maniera doppia (non dando valore quindi ai significati, anche numeri, del libretto e così le tre Dame diventano quattro), tutto speculare, tranne la Regina della Notte, sopratutto tutto bianco, anche i decori che spaziano da simil meringhe a reminescenze di stucchi barocchi, tutto fintamente elegante. Per poi passare, all’opposto, nel secondo tempo ad un decor che più brutto non si potrebbe: spoglio da fabbrica, con tutti in strane tute e capelli a caschetto.
Alla fine pochi gli applausi.
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