Se il numero dei concerti non comparisse sulla copertina del catalogo sarebbe difficile tenere il conto degli eventi che si svolgeranno durante il Festival di Musica Antica di Utrecht che quest’anno inizierà il 24 agosto e si concluderà il 2 settembre. Se nelle sue primissime pagine non comparisse lo schema con i riquadri di differenti colori che consente di capire a colpo d’occhio a quale serie appartiene un concerto o una conferenza o un convegno e in quale luogo si svolge, sarebbe difficile orientarsi nella marea di eventi. Il rettangolo azzurro corrisponde alla serie ‘I quattro duchi’ (borgognoni), il verde a Josquin, il giallo a Couperin, il rosso a Rameau, il blu alla Summer School, il lilla ai programmi per bambini, il grigio scuro al liuto, una sorta di bacchetta magica alle performance del gruppo residente graindelavoix, la sagoma di una campana ai concerti del grande Carillon della città, e il simbolo di una mano chiusa a pugno con il dito indice puntato verso l’alto agli insight. Per capire cosa racchiude questa sezione si deve leggere il suo titolo ‘What’s new?’ e anche il sottotitolo ‘Research and Development within Early Music’, che corrisponde ai brevi interventi quotidiani di musicologi e di musicisti dedicati alle fonti storiche, alle tecniche, alle pratiche esecutive e agli strumenti musicali.
Impossibile dar conto ed entrare nel dettaglio dei singoli programmi di concerto, o in quelli dei tre simposi, dedicati rispettivamente a Rameau, Josquin e al liuto, e delle altre attività, tra le quali c’è anche la rassegna Fringe che consentirà di scoprire giovani e promettenti ensemble musicali, e il Concorso Internazionale van Wassenaer al quale parteciperanno dieci giovani gruppi. Per cogliere l’atmosfera culturale e paesaggistica borgognone è possibile vedere online il documentario intitolato Het Bourgondische Leven, e per addentrarsi nel ricchissimo programma navigare nel sito del Festival, ma con l’avvertenza che potrebbe provocare un forte desiderio di possedere il dono dell’ubiquità; o più semplicemente ci si può affidare alle parole del direttore artistico, Xavier Vandamme, che ha una conoscenza enciclopedica degli interpreti di musica antica e che nel corso del Festival sembra possedere questo dono perché riesce a seguire quasi tutto quello che accade a Utrecht nel corso della manifestazione.
Sulla copertina del catalogo campeggia il titolo Borgogna, con il sottotitolo 10 giorni, 250 concerti, 1000 anni di repertorio. Quando pensiamo alla cultura musicale franco-fiamminga pensiamo al Quattrocento e al Cinquecento. In che senso mille anni di repertorio?
«Questi ‘1000 anni di repertorio’ sono uno slogan che sintetizza quello che ci distingue da altri organizzatori, aule e festival nel campo della musica classica, sia in Olanda o altrove. Non siamo un festival che presenta il grande repertorio classico e romantico, ovviamente. Anzi, nell’ambito della musica antica, non ci limitiamo alla musica barocca, o a quella rinascimentale. Il panorama è molto più ampio, e non ci sono limiti nel tempo per noi. Andiamo dalla musica greca antica fino alle creazioni contemporanee. Ma l’accento è sempre sul Medioevo, il Rinascimento e il Barocco. Mille anni, se volete. Certo, la definizione di musica antica che usiamo rappresenta piuttosto un approccio, una metodologia, e un modo di fare. Ma per noi è molto importante insistere sul repertorio, spesso sconosciuto, che vogliamo difendere. La nostra missione è di difendere una biodiversità nel mondo musicale. C’è tanto da fare e da scoprire! Sarebbe un peccato limitarci a quello che conosciamo…
Detto questo, lo slogan si applica anche al festival 2018, con la sua tematica borgognone. È vero che il baricentro di quest’anno è sulla musica franco-fiamminga, ma intorno a questo grande tema, abbiamo collocato altre musiche che hanno sempre un legame fortissimo con il territorio borgognone, come quelle dei due grandi ordini monastici internazionali del Medioevo, che hanno le loro radici in Borgogna: Cluny e Cîteaux. Incominciamo verso l’anno Mille, dunque, e prima ancora con il gregoriano più antico, all’epoca in cui non si parlava ancora dei grandi duchi del tardo Medioevo o del primo Rinascimento. Allarghiamo il nostro campo di attività anche verso il Barocco, per esempio con uno spazio sostanziale dedicato a Jean-Philippe Rameau, nato a Dijon. Ma andiamo anche oltre, fino a Debussy e Ravel».
Se non sbaglio è la prima volta che sulla copertina del catalogo avete scritto ‘Il più grande festival di musica antica d'Europa’?
«È vero! Non c’è nessuna qualità inerente all’essere grandi e grossi. Ma è vero anche che il numero di concerti e di attività crea altre possibilità. Nello sviluppare un tema, per esempio, possiamo far vedere più aspetti e dettagli, anche se non abbiamo nessuna ambizione di essere esaustivi. È un po’ come fare una foto: con più pixel la foto diventa più ricca e, in un certo senso, qualitativamente migliore. Il volume enorme dei concerti – fino a ventiquattro attività al giorno – fa una parte dell’identità del festival di Utrecht. Ma non dà mai la sensazione di un festival di massa, certamente no, perché la maggior parte dei concerti si svolge in luoghi piuttosto intimi da cento a cinquecento posti a sedere. In questo senso il programma è ricchissimo, e dunque non si può seguire tutto. Si deve scegliere! Questa sensazione di dolce frustrazione fa parte dell’esperienza…».
Quali sono gli aspetti più importanti del programma di quest'anno?
«Certamente la musica dell’epoca dei duchi borgognoni, cioè la fine del Trecento, del Quattrocento e dell’inizio del Cinquecento. E’ un repertorio sconosciuto e sottovalutato. Quando si dice musica rinascimentale, si pensa alle grandi costruzioni del Cinquecento, basate sul contrappunto e l’imitazione. La musica del Quattrocento è molto diversa. Ma non più semplice! Una chanson a tre voci è difficilissima da realizzare, perché fragile. Fare questa musica non è il mestiere dei gruppi rinascimentali che conosciamo. L’universo non è lo stesso. Il vero fulcro di questo festival è qui: nella difesa di compositori completamente sconosciuti ma che hanno preparato la grande tradizione paneuropea del Cinquecento. Conosciamo forse, almeno di nome, i tre grandi: Dufay, Binchois e Busnois. Ma chi conosce Tapissier, Morton, i Lantin, van Ghizeghem, Grenon, Vide, Joye e tutti gli altri? Questo nostro festival è dedicato a loro».
La polifonia franco-fiamminga è stata studiata, eseguita e si è scritto molto su di essa. Come mai parte del repertorio del XV secolo è stato dimenticato? Lo si considerava di minore importanza?
«Tanto per cominciare, abbiamo molte meno informazioni e una minore quantità di musica rispetto all’epoca successiva. La tradizione borgognone stessa, quella del tardo Trecento e del Quattrocento, non ci ha prodotto tanto quanto nel Cinquecento, anche perché come è noto la musica a stampa contribuì alla diffusione e al successo di certi generi e di certi compositori, ma con un certo ritardo. In precedenza sia la musica profana che quella religiosa erano piuttosto intime e malinconiche, e pensate per luoghi e spazi molti precisi, in genere mai troppo grandi. La musica a stampa ebbe una diffusione ‘commerciale’ ed era destinata a differenti luoghi di esecuzione, anche anonimi. Questi sono aspetti della realtà estetica e strutturale della musica, ma ci sono anche ragioni per così dire ‘politiche’. Nessuno di questi compositori è stato presentato e promosso come una sorta di eroe o campione nazionale tra il XIX e il XX secolo, come è il caso di Josquin che è diventato l’incarnazione della musica olandese anche se non era olandese.
Josquin è stato riscoperto grazie alla edizione integrale delle sue opere fatta dalla KVNM (Reale Società Olandese di Storia della Musica), che è la più antica d’Europa, e che era interessata a ricostruire il panorama della musica d’arte dei Paesi Bassi.
C’è anche un altro aspetto da tenere in considerazione. Il movimento della riscoperta della musica antica del dopoguerra si è concentrato molto sulla grande tradizione cinquecentesca, e ad esempio sulle figure di Lasso, de Monte o Palestrina, con il grande contrappunto imitativo a cinque o sei voci, ed oggi abbiamo molti più gruppi musicali che si dedicano a questo repertorio. Lavorare sulle chanson a due o tre voci richiede un altro tipo di lavoro, per via delle loro sottigliezza e di una certa fragilità. Quest’anno abbiamo avuto tanti gruppi che hanno rinunciato ad affrontare questo repertorio, perché coscienti delle implicazioni e delle esigenze specifiche di un patrimonio più antico che certamente non è facile da eseguire».
Come funziona una macchina così complessa come il vostro Festival?
«Grande domanda! Al livello artistico, ci lavoriamo per quasi due anni. Scegliamo sempre una tematica, perché come diceva Goethe, ‘in der Beschränkung zeigt sich der Meister’, che si potrebbe tradurre come ‘abbiamo bisogno di un quadro, o di limiti, per poter approfondire la materia’. E questo lavoro procura un piacere enorme, come si può immaginare...».
Possiamo già annunciare il tema del 2019 o è un segreto?
«Niente segreti! Nel 2019 andiamo a Napoli! O Napoli verrà da noi a Utrecht!».