Steve Coleman oltre la musica
Il primo volume del Live at the Village Vanguard del gruppo Five Elements del sassofonista
Un anno fa, più o meno in questi stessi giorni, nel tentativo di afferrare (almeno in parte) l’essenza dello sfolgorante Morphogenesis (qui la recensione del disco uscito nel 2017), avevamo sottolineato come Steve Coleman si fosse ormai definitivamente allontanato dall’idea che improvvisare e comporre siano processi meramente (e formalisticamente) riconducibili al solo ambito musicale.
L’accento posto in più occasioni su concetti come “visione“ e “visualizzazione“, il reiterato ricorso a termini mutuati da vari ambiti scientifici (la già citata “morfogenesi“, ma anche i “giunti sinoviali“ e le “aritmie funzionali“ che davano il titolo ai lavori precedenti), la scrittura intesa come abbandono e riflesso quasi istintivo a stimoli “alieni“ (i movimenti della boxe e quelli delle articolazioni, i rumori della foresta pluviale, il battito del cuore), le strutture armoniche e le orchestrazioni sovrapposte alle linee melodiche abbozzate in una sorta di trance: tutto nell’universo Coleman si è mosso (forse da sempre) e continua a muoversi nella direzione di un’utopistica e rigorosissima idea di spontaneità.
Non fa eccezione l’ultima (doppia) fatica del sassofonista di Chicago, pubblicata dalla Pi Recordings e registrata dal vivo nel maggio del 2017 al Village Vanguard, durante una delle annuali residenze che il tempio del jazz newyorchese dal 2015 offre alle band guidate da Coleman. In questo caso i Five Elements, che tra partenze, ritorni e avvicendamenti stanno in piedi da più di trent'anni e che finiscono di nuovo sotto i riflettori dopo due dischi (Synovial Joints e Morphogenesis) all'insegna dell'opulenza. La formazione è quella tipo – Jonathan Finlayson alla tromba, Miles Okazaki alla chitarra, Anthony Tidd al basso elettrico e Sean Rickman alla batteria –, stabile ormai da un pezzo e scarrozzata in giro per l'Europa e per gli Stati Uniti con tenace regolarità.
Seguendo il percorso tracciato da una lunga serie di ingaggi che, come fa notare lo stesso Coleman nelle note di copertina, hanno permesso al quintetto di «acquisire la capacità di interpretare istintivamente e spontaneamente» brani scritti «continuando a sviluppare un approccio alla composizione personale e il più spontaneo possibile». Brani per metà nuovi (i vari “Djw”, “idHw”, “twf” e “Nfr”, identificati con una serie di lettere quasi a rimarcarne la natura modulare di “occasioni” più che di composizioni) e per metà rimasticati attingendo dal vasto repertorio della band (“Change the Guard” e “Little Girl I'll Miss You” di Bunky Green arrivano dritti dritti dal 1986, da On the Edge of Tomorrow, “Figit Time” di Doug Hammond ancora da più lontano, dal 1982).
Quasi speculare la scaletta dei due dischi, con la maggior parte delle tracce che si sdoppia in un gioco di rimandi obliqui e deformanti. All'interno del quale strategie e paesaggi sono però immediatamente e perfettamente riconoscibili. Gli scambi veloci e taglienti tra i fiati e il basso, che si spalleggiano e sovrappongono nella consueta serie di contrappunti e di unisono; la pulsazione costante, implacabile, ipnotica; gli inconfondibili accenti funky e le altrettanto caratteristiche assonanze con il bebop; il vorticoso combinarsi e ricombinarsi delle cellule ritmiche e melodiche; gli assoli inseriti in contesti precari, problematici: totale il controllo, stupefacente la fluidità, infinita la quantità di preziosismi e di dettagli.
Per una pubblicazione che sta ai Five Elements come il Plugged Nickel sta al quintetto di Miles Davis, e che va dunque maneggiata come se si trattasse di un bootleg extra lusso. In attesa che il volume due ingigantisca ulteriormente la portata di un live che ha già i crismi dell'opera definitiva.