I migranti e le donne di Aix-en-Provence
Dido and Aeneas, Ariadne auf Naxos, L’angelo di fuoco e la novità Seven Stones al Festival d’Art lyrique di Aix-en-Provence
Si respira molto il dramma dei migranti al Festival d’Aix-en-Provence 2018, l’ultimo di Foccroulle che nei suoi 12 anni di direzione ha trasformato il DNA del festival nato mozartiano settant’anni fa e che oggi guarda molto di più alle sponde, a tutte le sponde, del vicino Mediterraneo, distante solo poche decine di chilometri. Un festival dalle risonanze molto attuali in sintonia con la dichiarata intenzione del suo direttore, che lascia un festival più giovane – anche grazie ai molti artisti usciti dalla felice ventennale esperienza dell’Académie, con cui i legami sono più forti che mai – e più aperto a dialogare con culture diverse e vicine, come quella di una novità volute per questo festival, il progetto di teatro partecipativo Orfeo & Majnun presentato a Aix-en-Provence a qualche giorno dalla prima a Bruxelles. Un festival aperto anche a esperienze “militanti” come a quel progetto Orpheus XXI, musica per la vita e la dignità, fortemente voluto da Jordi Savall come atto concreto di integrazione di musici migranti, che a Aix ha preso corpo attraverso il concerto dei quattro musicisti siriani riuniti nel Moslem Rahal Quartet in un percorso di canti popolari e musiche che attraversano culture musicali e non solo all’apparenza lontane ma con legami profondi e antichi.
Un intreccio di culture, di destini, di musiche che collegano le due sponde attraverso fili invisibili tessuti da rotte millenarie si respira nel monologo “Je viens de Phénicie” scritto da Maylis de Kerangal come prologo al Dido and Aeneas e recitato dalla malinese Rokia Traoré sugli accordi stanchi dello n’goni di Mamah Diabaté in una scena immersa nel buio fra donne sedute in attesa. “Vengo dalla Fenicia, dall’altra parte del mare. Da una città che non ha conosciuto altro che la violenza, le guerre, la rivolta degli schiavi, il giogo dei Persiani.” La donna è Didone ma non afferma la sua regalità. Piuttosto, da pegno di un’alleanza, racconta della sua fuga come “schiava e sotto scorta” dalla nave armata dal fratello e infine liberata con il sogno condiviso dagli uomini e donne in viaggio con lei di una promessa “di una città, di donne, di feste, di terre fertili e fonti chiare.” Superata la diffidenza e la paura, dice la donna: “questi antichi nemici sono divenuti miei. Ho tradito il mio sangue, sono divenuta esule.” Esule che a Cartagine accolgono altri esuli, quelli in fuga dalle macerie di Troia guidati da quell’Enea, la cui bellezza è simile a quella di un dio. Purcell si riprende la scena, che all’Archevêché è occupata da una riva alta, che protegge da un mare invisibile, fatta di pietre antiche logore ma ancora possenti con tracce di antiche civiltà. Il regista Vincent Huguet, però, dopo quel prologo forte sembra quasi torni nei ranghi, salvo che per quelle presenze femminili cui dà molto rilievo, quasi che la sua Cartagine fosse una ridotta di un matriarcato appena violato ma non sconfitto da un eroe debole e vile. Fin troppo composta anche la realizzazione musicale, guidata da Václav Luks, più incline a smussare i contrasti che a esaltare l’estrema varietà di situazioni e colori della partitura di Purcell. Peccato! Perché in buca suona un gruppo strumentale di grande potenzialità come l’Ensemble Pygmalion. In un cast piuttosto debole si impone decisamente solo l’estro interpretativo di Lucile Richardot come Sorceress, mentre deludono i due spenti protagonisti, Anaïk Morel (Didone) e soprattutto Tobias Greenhalgh (Enea). Importante l’apporto dell’agile coro dell’Ensemble Pygmalion, presenza fondamentale nell’opera di Purcell.
Cambio di tono radicale per Ariadne auf Naxos, l’altro spettacolo in alternanza sulla scena all’aperto del Théâtre de l’Archevêché. Niente emigrati in questo caso ma ancora e soprattutto donne nello spettacolo firmato dalla regista Kate Mitchell, che fa dell’opera di Strauss e von Hofmannsthal un esercizio metateatrale tanto rigoroso quanto algido nell’impeccabile costruzione. Rovesciando una consolidata routine, Mitchell non vuole una separazione marcata fra prologo e opera, ma soprattutto vuole che l’opera sia una vera e propria estensione del prologo ma alla presenza dell’uomo più ricco di Vienna (stravagantemente vestito di un lungo abito femminile rosso fuoco) e della moglie. I due seguono attentissimi commentando e interagendo con gli attori della rappresentazione. Mitchell imbroglia un po’ le carte nella rappresentazione dello spettacolo nello spettacolo regalando ad Ariadne una inattesa maternità, che la distoglie dal suo liberatore Bacco, il quale del resto la prende per un’altra. Ma soprattutto svela impietosamente e efficacemente l’insensatezza della rappresentazione simultanea voluta dal ricco mecenate. E non è priva di gelido humour la chiosa che il drammaturgo Martin Crimp mette in bocca al padrone di casa a spettacolo concluso: “Questa sera abbiamo assistito a un esperimento interessante, ma credo che il futuro del teatro sarà tutta un’altra cosa.”
Come sempre la Mitchell riesce a tirar fuori il meglio dai suoi interpreti, di livello comunque non comune a Aix. Assolutamente formidabile la Zerbinetta di Sabine Devieilhe, al debutto nel ruolo, impeccabile nelle acrobazie di “Großmächtige Prinzessin” ma capace di dare un ritratto a tutto tondo del personaggio. Non meno riuscita la prova di Lise Davidsen come Ariadne e di Angela Brower come compositore. Eric Cutler onora il suo ruolo, che ha meno rilievo nel mondo di donne della Mitchell, e tutti ben assortiti gli altri numerosi interpreti, dal quartetto dei comici Huw Montague Rendall, Jonathan Abernethy, Emilio Pons e David Shipley, alle tre ninfe di Beate Mordal, Andrea Hill e Elena Galitskaya, al maestro di musica di Josef Wagner, fino ai tre recitanti Maik Solbach (il maggiordomo), Paul Herwig e Julia Wieninger (l'uomo più ricco di Vienna e signora). La bacchetta esperta di Marc Albrecht dirige con misurata vivacità i bravi strumentisti dell’Orchestre de Paris.
Ancora una donna, questa volta dall’identità indefinita, ma soprattutto atmosfere sospese prese a prestito dagli incubi metropolitani di David Lynch sono gli ingredienti principali del nuovo Angelo di fuoco, l’enigmatica opera postuma dal fascino sinistro di Sergej Prokof’ev, andato in scena al Grand-Théâtre de Provence con la regia di Mariusz Treliński. Fatta piazza pulita del tardo medioevo alchemico e mistico del libretto e archiviate interpretazioni psicoanalitiche dell’ossessione della protagonista Renata per l’angelo di fuoco Madiel, lo spettacolo di Treliński porta in sordidi motel animati di presenze sinistre ed enigmatiche, contesto plausibile per l’irrisolta e sofferta love story fra l’anonimo viaggiatore Ruprecht e quella donna passionale e tormentata che trova in pieno delirio nel bagno della sua stanza. Non dà risposte nemmeno nel finale, disturbante come tutto il resto, con quella scena di blasfema isteria collettiva con Renata moltiplicata per tutte le monache di quel convento permeabilissimo a influenze aliene. Se non si scava troppo nel senso dell’operazione, va detto che la confezione di questo Angelo di fuoco è prim’ordine a cominciare dal complesso dispositivo scenico su più piani e con molto neon di Boris Kudlička e i visionari costumi di Kaspar Glarner. Di prim’ordine anche la realizzazione musicale affidata a Kazushi Ono che, alla guida dell’Orchestre de Paris in forma smagliante, firma un’esecuzione implacabile e scintillante sul piano sonoro, che ha il solo difetto di coprire spesso le voci. Non ne soffre troppo la formidabile protagonista Aušrinė Stundytė la cui voce non è bellissima ma funzionale alle ragioni della scena dominata con istintualità ferina. Nel resto della lunga locandina, si distinguono soprattutto la prove di Scott Hendricks (Ruprecht) e di Krzysztof Bączyk (L'inquisitore).
Rinviata nella scorsa stagione per problemi di budget, Seven Stones del praghese Ondřej Adámek, la seconda novità di questa edizione, è stato presentato nella raccolta scena del Théâtre de Jeu de Paume. Si tratta di un lavoro molto personale per quattro solisti e 12 coristi, impegnati anche a suonare le molte percussioni, strumenti orientali a corde ma anche altri inventati dallo stesso Adámek. Si parla di tempo (“la differenza fra l’uomo e la pietra è il tempo — mentre l’uomo si è mutato in polvere la pietra conserva la sua forma”) e di spazio che è quello del mondo attorno al quale portano le sette storie di sapore surrealista cucite dall’islandese Sjón addosso al collezionista di pietre. Confuso e quasi afasico all’inizio, poco a poco l’uomo mostra una ferita profonda, che con quel suo vagare senza sosta cerca di lenire. Dai vulcani dell’Islanda, passando per l’osteria praghese “U Babelsteinů”, e poi per le vie di Kyoto, nei villaggi del Kurdistan e con divagazioni sorprendenti come l’incontro con il poeta cieco veggente Borges o la visita di Edvard Munch a Marie Curie, il collezionista raccoglie le pietre che sono i frammenti di un passato doloroso: con una pietra ha ucciso la moglie abbracciata all’amante, che invece si rivela essere il figlio maggiore colto in un momento di affetto familiare. “Una pietra scagliata con rabbia non può tornare nella mano” e l’uomo deve fare i conti con quella pietra che non tornerà più nella sua mano come non potrà più riavvolgere il nastro del tempo.
Adámek è abile nel condurre il filo con la leggerezza di un gioco infantile, con giochi di parole e di note che combinano con disinvoltura e grande spirito inventivo generi e stili differenti con un’esemplare economia di mezzi. Allo stesso modo il regista Éric Oberdorff mostra una grande abilità a costruire mondi su una scena pressoché vuota con le sole luci di Eric Royer e i corpi degli interpreti, al cui gioco partecipa anche il direttore-performer (lo stesso Adámek), oltre al variegato strumentario. Bravissimi tutti gli interpreti: Nicolas Simeha presta al collezionista il suo sguardo attonito e l’incessante ricerca di parole nella sua memoria smarrita, come le due narratrici Anne-Emmanuelle Davy e Shigeko Hata che accompagnano con leggerezza nelle tappe del viaggio, e Landy Andriamboavonjy che infonde dolore vero alla presenza costante della moglie, e ovviamente i 12 coristi di accentus / axe 21 che disegnano con le parole quei luoghi diversi nei quali quel migrante dell’esistenza, come in fondo tutti noi, ricostruisce la propria umanità.
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