Silvia Colasanti inaugura il Festival dei Due Mondi
Grande successo a Spoleto per Minotauro, prima assoluta dell’opera della compositrice romana
Va a merito del Festival dei Due Mondi aver allacciato un rapporto continuativo e proficuo con un compositore contemporaneo, in cui evidentemente crede e a cui offre importanti opportunità. La scelta è caduta su uno dei migliori compositori di oggi, Silvia Colasanti, a cui il Festival ha commissionato un nuovo lavoro per ognuna delle sue ultime tre edizioni, affidandole questa volta l’inaugurazione con l’opera Minotauro, su un libretto di René de Ceccatty e Giorgio Ferrara. Già altre volte la Colasanti è stata attratta da miti antichi e moderni come Orfeo e Faust e sempre ne ha dato una propria personale lettura, spesso appoggiandosi a uno scrittore dei nostri giorni che ha rivisitato quei miti.
Per il Minotauro ha seguito una ballata di Friedrich Dürrenmatt, che ribalta il mito antico: quell’essere mostruoso, metà uomo e metà toro, non è un carnefice, ma una vittima di Teseo e Arianna, che lo ingannano e l’uccidono. A dirla tutta, questo Minotauro sarà pure un essere “ingenuo”, ma, seppur giustificato perché è inconsapevole della propria forza micidiale, uccide prima una giovane da cui è fisicamente attratto, poi i fanciulli inviatigli dagli ateniesi: dunque non è solo vittima, come affermano compositrice e librettisti nelle loro presentazioni dell’opera, ma anche carnefice.
Ma mi sembra che il dilemma vittima o carnefice sia di secondaria importanza, perché il nucleo fondamentale di quest’atto unico è la coscienza – o piuttosto la non-coscienza – di sé del Minotauro, costretto a vivere in un labirinto di specchi, che gli rimandano continuamente la propria immagine, facendogli credere che il mondo sia soltanto un riflesso di se stesso. Solo quando vede Teseo, comincia a prendere coscienza dell’esistenza di esseri diversi; ma, appena raggiunge questa consapevolezza, l’altro lo uccide. Tutto è come un sogno che si svolge nella testa di quest’essere metà uomo e metà bestia, che non ha contatti con la realtà concreta. Ha molto di onirico la musica stessa della Colasanti, che ha spesso momenti immobili e rarefatti ma anche ritmi ostinatamente ripetuti. Talvolta invece ha una gestualità molto evidente, che corrisponde alle azioni che avvengono in palcoscenico, ma, poiché la musica non è materiale e concreta ma è fatta della stessa materia dei sogni, questo sembra suggerire che quelle azioni non siano reali ma avvengano nella testa del protagonista stesso.
Se si vuole cercarli, nella musica della Colsanti si possono trovare lontani riferimenti alla antica modalità, al recitar cantando, al madrigalismo cinque-seicentesco, all’estremo romanticismo, al Novecento. Ma non si tratta di neo-qualcosa o post-qualcos’altro, è solo l’uso di vocaboli che sono alla base della musica occidentale e che danno vita a uno stile molto personale, sempre mutevole, che risponde con estrema sensibilità alle diverse situazioni, caricandosi di volta in volta di dolcezza, di violenza, di mistero, di ingenuità, di malizia.
Jonathan Webb ha diretto con grande attenzione l’Orchestra Giovanile Italiana e l’International Opera Choir preparato da Gea Garatti. Gianluca Margheri aveva i muscoli e la voce giusti per interpretare la parte piuttosto faticosa del Minotauro, affiancato dalla giovane e promettente Benedetta Torre (Arianna) e dall’esperto e affidabile Matteo Falcier (Teseo). La regia di Giorgio Ferrara – qui anche scenografo – è riuscita a dare forte tensione teatrale ad un’opera quasi priva di azione.
La recita domenicale – cui abbiamo assistito – si è svolta in un teatro dove restavano pochissimi posti vuoti e il pubblico ha premiato autori e interpreti con applausi entusiastici, quali ormai è difficile sentire anche dopo una Traviata o una Tosca.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Jonas di Carissimi e Vanitas di cinque compositori contemporanei hanno chiuso le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte del grande maestro del Seicento
Il primo pianista francese a vincere il Čajkovskij di Mosca conquista il pubblico milanese con un interessante quanto insolito programma.