Le molte novità dell’Holland Festival 2018
Ad Amsterdam il Tanztheater Wuppertal nella prima produzione post-Bausch, un provocatorio Gesualdo da Venosa e musiche per altri mondi...
Ci sono lutti che hanno bisogno di anni per essere elaborati. Quello del Tanztheater Wuppertal è durato nove anni. Ma la vita, anche di una compagnia di danza, continua e occorre guardare avanti per non soccombere. Da nove anni, il gruppo creato da Pina Bausch è sopravvissuto riproponendo il vasto repertorio dei suoi spettacoli prodotti in oltre 40 anni di attività con nuove generazioni di danzatori. La svolta arriva solo ora con un Neues Stück I commissionato dalla compagnia a Dimitris Papaioannou, che dopo Wuppertal arriva allo Stadsschouwburg di Amsterdam per iniziativa dell’Holland Festival, prima tappa di una lunga tournée europea quasi in contemporanea con il battesimo ancora a Wuppertal del Neues Stück II affidato al norvegese Alan Lucien Øyen.
Papaioannou prende i passi proprio “da lei” – Seit sie è infatti il titolo alternativo del pezzo – e dalle inconfondibili atmosfere create della Bausch per e con i suoi danzatori e le intreccia con le sue immagini di marcato gusto pittorico e le reminescenze dell’arte classica. È un moderno Atlante quello che si carica sulle spalle il peso di innumerevoli sedie e statue classiche sono quei torsi nudi che con l’illusionismo ingenuo del teatro nero il coreografo greco ci mostra privi di arti. La sua creazione è fatta di frammenti slegati e di forte impatto visionario (la scena è di Tina Tzoka e i costumi “bauschiani” con le donne in lungo e uomini in grisaglia sono di Thanos Papastergiou), proprio come quelli degli ultimi lavori della Bausch, in cui si sorride, come in quello strambo rito di fertilità ancestrale aggiornato alla mania culinaria dei nostri tempi, ma si intuiscono anche le tragedie dei nostri giorni, magari in quei tavoli rovesciati stracolmi di corpi che scivolano veloci come le zattere di disperati delle nostre cronache quotidiane. La colonna sonora combina l’inconciliabile con i grandi classici Wagner, Bach, Verdi, Khachaturian, Ives, Mahler, Prokof’ev e Kancheli, spesso in frammenti appena riconoscibili, al rebetiko e alle moderne ballate di Tom Waits. Uno spettacolo sulla fine del tempo per voltare pagina e guardare oltre.
Personaggio sulfureo quel Carlo Gesualdo, Principe di Venosa, madrigalista sublime e protagonista di vicende violente quanto oscure, che farebbero anche oggi la fortuna di molti dei programmi tv che campano di cronaca nera. Dal contrasto fra la sua vita scellerata e la purezza della sua musica nasce l’idea di Gesualdo, lo spettacolo andato in scena nella Rabozaal dello Stadsschouwburg per iniziativa del collettivo teatrale De Warme Winkel, descritto come uno dei gruppi emergenti fra i più interessanti del paesaggio teatrale olandese, e del Nederlandse Kammerkoor. Anzi, l’idea di una collaborazione nasce proprio dal direttore del Kammerkoor, Tido Visser, gran conoscitore della produzione madrigalistica di Gesualdo. «La domanda è: perché sulla scena, nei film e nell’arte siamo attratti da cose che generalmente disprezziamo nella vita?», si chiede Visser in una lettera a un cantante del coro, una lettera letta a inizio spettacolo dall’angelico Florian Myjer torturato (letteralmente) dagli scatenati Vincent Rietveld e Ward Weemhoff, tutti completamente nudi, in una situazione che dà la chiave dello spettacolo costruito sul contrasto fra il sublime musicale e la sgradevolezza delle situazioni sceniche, nelle quali non si risparmia davvero nulla.
E fortunatamente il livello di interazione fra performance teatrale e musica è molto scarsa: i brani sacri e i madrigali di Gesualdo, eseguiti impeccabilmente e senza stravolgimenti di sorta dai solisti del coro da camera, preparati da Harry van der Kamp, rimane sostanzialmente estranea alle sfrenate nefandezze inanellate con gusto goliardico e apertamente provocatorio dai cinque performer del gruppo, ispirate alla ricca aneddotica che circonda il personaggio di Gesualdo. C’è il presunto infanticidio ai danni del secondogenito per la somiglianza sospetta con l’amante della prima moglie, c’è il taglio di un bosco presso Venosa per zittire lo stormire delle foglie che lo distoglieva dal lavoro di composizione (ma sembra fosse piuttosto per difendersi meglio dai vendicatori), c’è il presunto masochismo di Gesualdo. C’è ovviamente il delitto d’onore di cui sono vittime la moglie Maria d’Avalos, che riceve ben 36 coltellate più altre 17, e l’amante Fabrizio Carafa, colti sul fatto dal Principe di Venosa: nel più puro stile splatter alla Non aprite quella porta, il marito con una sega elettrica fa letteralmente a pezzi i due amanti colpevoli fra generosi getti di sangue (il coro frattanto viene murato vivo nel fondo scena). «Ti devi chiedere: sono disposto ad aprirmi a questa esperienza? Se lo sei, potresti fare una delle migliori esperienze della vita. Se non lo sei, sarà uno dei più disastrosi momenti», conclude Visser nella sua lettera. Se qualcosa vogliono dire risate e partecipazione, il pubblico dell’Holland Festival è decisamente molto aperto.
Poche sorprese nei concerti dell’Holland Festival Proms in programma nelle varie sale del venerando Concertgebouw. L’islandese Daníel Bjarnason – compositore “curioso” che vanta collaborazioni crossover con Sigur Rós, Ben Frost e Brian Eno – con We came in peace (for all mankind) propone una performance, che vuol essere un rito moderno nell’intento dello stesso autore. Sequenze di accordi di dodici cornisti in circolo risuonano nelle casse armoniche di dodici pianoforti aperti, con sonorità inedite, come codici inviati nello spazio. E con lo spazio il pezzo condivide il titolo, che proviene dalla targa applicata all’Apollo 11 durante la prima missione lunare. Idea interessante ma priva di sviluppo il cui interesse maggiore è proprio nella mise en espace dei dodici strumenti che riempiono la platea dalla sala grande del Concertgebouw svuotata delle sedie.
Di carattere più sperimentale l’altra performance in cartellone: Electro Symphonic Orchestra dell’olandese Colin Benders. Si tratta di 9 ore durante le quali Benders è piazzato davanti a una consolle che controlla una serie sintetizzatori modulari distribuiti spazialmente come gli strumenti di un’orchestra. Se 9 ore son già tante (ma il pubblico è libero di entrare e uscire a piacimento), non rassicura che si tratti soltanto di un saggio di una composizione più estesa programmata per il 2019. Lunghezza a parte, anche in questo caso l’interesse sta soprattutto nel progetto più che nell’originalità della proposta musicale, ancorata alle sonorità più convenzionali e datate del genere.
Su binari più tradizionali, il programma operistico dell’Holland Festival in collaborazione con l’Opera Nazionale Olandese che, accanto alla novità Lessons in Love and Violence di George Benjamin presentata a Amsterdam a poche settimane dalla prima assoluta londinese (ne raccontiamo qui), proponeva una stimolante nuova produzione de Les contes d’Hoffmann con un ottimo cast vocale e un’accattivante regia di Tobias Kratzer. In una complessa e geniale scenografia disegnata da Rainer Sellmaier, un Hoffmann in blue jeans e propenso allo sballo non solo alcolico è chiuso in un loft sospeso e incastonato fra ambienti animati dalle sue fantasie, tutte proiettate sul contemporaneo e sui suoi vizi capitali: Olympia è un oggetto di puro piacere sessuale in una squallida tratta delle bianche gestita dal ruffiano Coppelius; Antonia è una fantasia romantica, fragile come il suono del vecchio grammofono scambiato per la voce della madre; Giulietta è una dark lady di un sottosuolo popolato dei dannati di droghe e sesso mercenario.
Strepitoso l’Hoffmann di John Osborn in splendida forma vocale, ma non meno riuscita la prova del suo “dark side” demoniaco Erwin Schrott. Ottime anche le prove vocali della tre donne del desiderio – Nina Minasyan, un’Olympia dal cuore pulsante, Ermonela Jaho, un’Antonia lacerata da una passione disperata, e Christine Rice, una Giulietta dal cuore di pietra – e della musa domestica (e trascurata) Irene Roberts. Dal resto della lunga locandina spicca la bella prova del giovane tenore Sunnyboy Dladla nel quadruplice ruolo di Andrès, Cochenille, Frantz e Pittichinaccio. Di rilievo la prova del Coro dell’Opera Nazionale Olandese, che però fatica a tenere il passo in più di un passaggio, inappuntabile invece la Rotterdam Philharmonic Orchestra guidata con perizia da Carlo Rizzi. Successo incondizionato.
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