L’allegoria disarmata dell’esistenza
A Parma Lenz rilegge Il Grande Teatro del Mondo di Calderón de la Barca per Natura Dèi Teatri
Tra Scalone monumentale, Galleria Nazionale e Teatro Farnese – tre luoghi-simbolo del Complesso della Pilotta di Parma – ha preso forma la riscrittura scenica de Il Grande Teatro del Mondo, prima tappa del progetto triennale “Passato imminente” dedicato da Lenz Fondazione a Calderón de la Barca. Collocato nell’ambito di Natura Dèi Teatri, festival internazionale di performing arts giunto alla ventitreesima edizione, lo spettacolo ha avviato anche i festeggiamenti per i quattrocento anni del Teatro Farnese, celebrazione pensata nel segno delle arti e della contemporaneità che coinvolge le principali realtà culturali della città emiliana.
Oltre venti artisti, tra performer dell’ensemble di Lenz e musicisti del Conservatorio Arrigo Boito, hanno dato vita a una reinvenzione del testo di Calderón articolata in tre sequenze plasmate dalla visione combinata tra installazione, costumi e regia di Maria Federica Maestri e testi e imagoturgia di Francesco Pititto. Un percorso itinerante nel quale il pubblico è stato chiamato a sostare nello spazio di fronte al grande portone del Teatro Farnese, dove è avvenuto l’incontro tra l’Autore/Dio (il bambino Matteo Castellazzi) e il Mondo (Barbara Voghera), passando poi all’interno della Galleria Nazionale dove, tra sculture e dipinti, si è assistito all’assegnazione dei ruoli agiti dai diversi personaggi – il Re (Sandra Soncini), il Contadino (Franck Berzieri), il Povero (Paolo Maccini), il Ricco (Monica Bianchi), la Bellezza (Carlotta Spaggiari), la Discrezione (Lara Bonvini), il Bambino mai nato (Lorenzo Davini) e Legge di Grazia (Valeria Meggi) – fino ad arrivare all’interno dello stesso Teatro Farnese. In questo spazio ligneo – già sdoganato alla dimensione dello spettacolo deambulante con lo Stiffelio dello scorso Festival Verdi – gli spettatori sparsi ai lati della cavea centrale hanno potuto assistere alla messa in scena delle vite dei diversi personaggi – accompagnati dalla voce recitante di Valentina Barbarini e a quella di basso di Eugenio Degiacomi – osservati e alla fine giudicati nel loro recitare a soggetto dallo stesso Autore.
Quella che abbiamo attraversato è stata una declinazione immanente del testo di Calderón, un’allegoria disarmata dell’esistenza, dove nell’agire il proprio ruolo i diversi personaggi si sono spogliati – anche fisicamente – dei loro caratteri contingenti arrivando a sfiorare la natura profondamente umana – e, in quanto tale, inerme e impotente – della percezione dello scorrere della vita. Un’esistenza freddamente assegnata, dove il libero arbitrio appare come un amaro disincanto di fronte all’ineluttabilità del tempo e del suo scorrere. Una visione in grado di asciugare le malie barocche del luogo letterario dal quale trae origine, come del luogo fisico dove ha preso nuova forma, per restituirci un’alienata evocazione drammaturgica nei cui intertizi, tra variegate e reiteranti proiezioni visive, balenavano affilati gli interventi delle composizioni sonore e rielaborazioni elettroniche di Claudio Rocchetti, con lo straniante controcanto dei diversi clavicembali sparpagliati nello spazio scenico e “toccati” da Sara Dieci, Alessandro Trapasso, Luciano D’Orazio, Alessio Zanfardino, Francesco Monica, Francesco Melani, diretti da Francesco Baroni.
Un meccanismo complesso e sofisticato che, nonostante fosse abitato dall’interno dallo stesso spettatore, ci ha lasciato la sensazione di un certo distacco, assieme al segno dell’originale densità di una rappresentazione che ha raccolto alla fine i convinti consensi del pubblico presente.
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