Il lato funky di Grant Green
Due ristampe Resonance per riscoprire la funkiness di un chitarrista spesso sottovalutato
Molto amato dagli appassionati di rare grooves, specialmente nella sua produzione più tarda, ma sottovalutato (quando non apertamente svalutato) da una falange jazz che non ha mai digerito troppo le incursioni verso suoni black più commerciali (si potrebbe fare un ragionamento simile per Donald Byrd), il chitarrista Grant Green è stato musicista di scoppiettante funkiness.
Artista che la Blue Note ha gestito in modo caoticamente (non) strategico durante gli anni Sessanta (molti suoi dischi sono stati pubblicati a lunga distanza dalla data di registrazioni, alcuni addirittura dopo la morte, avvenuta nel 1979), Green affonda nella seconda metà del decennio in pesanti problemi personali, legati in particolare alla droga.
Al suo ritorno sulla scena, nel 1969, vira verso sonorità jazz-funk più appetibili commercialmente e lo fa maledettamente bene, come testimoniano dischi come gli ottimi “live” At Club Mozambique e At Lighthouse, l’incursione blaxploitation con la colonna sonora di The Final Comedown o il fresco Carryin’ On, non amatissimo dai critici, ma abbastanza incrollabile nel cuore degli appassionati.
La discografia di Green della prima metà degli anni Settanta si arricchisce ora di due ghiotte gemme, grazie al sempre rifinitissimo lavoro di Zev Feldman e della sua Resonance Records.
Il primo, Funk In France (From Paris To Antibes, 1969-1970) è un doppio che raccoglie due sortite francesi del nostro tra il 1969 e il 1970.
Recuperate nei sempre ricchi archivi dell’INA (Institut National de l'Audiovisuel), una seduta di registrazione alla Maison de la Radio di Parigi e un live al Festival di Antibes.
Nel disco “parigino” con Green ci sono un fantastico Larry Ridley al basso e l’esperto Don Lamond alla batteria, cui si aggiunge un altro chitarrista come Barney Kessel in “I Wish You Love”. Nonostante il brano di James Brown in apertura, il set è prevalentemente di matrice jazzistica, con l’inconfondibile fraseggio a note singole a ricamare temi di Sonny Rollins o un classico della bossanova come “Insensatez”. Ottimo tiro, va da sé.
Nel concerto di Antibes, il clima è invece già decisamente più funky, non solo per la formazione, con sax tenore e organo, ma anche perché l’approccio è molto chiaro: i temi sono trampolino di lancio per lunghe improvvisazioni (nelle tracce parigine si superano a stento gli 8 minuti, qui si va dal quarto d’ora in su!) che diventano progressivamente roventi. Si tratta di una modalità “jam” che dà ovviamente spazio a ridondanze e a dinamiche energetiche che hanno più un senso dal vivo che su disco, ma, nemmeno troppo paradossalmente se ci si pensa bene, è in questo contesto che la fantasia di Grant può avventurarsi più liberamente nell’esplorazione di nuovi terreni, lui e soci sono particolarmente in palla e il disco va giù che è un piacere.
Con il secondo disco, Slick! (Live At Oil Can Harry’s),ci spostiamo nel 1975 e in Canada, a Vancouver. In quel periodo il chitarrista è senza etichetta e si muove in un mondo ormai popolato da colleghi più giovani e dalle idee più nuove, ma il concerto è piuttosto elettrizzante.
Con lui ci sono Emmanuel Riggins (padre di Kareem, più famoso batterista hip hop e jazz) all’organo, Ronnie Ware al basso, Greg Williams alla batteria e Gerald Izzard alle percussioni. Ci si scalda al blues di “Now Is The Time”, per affondare con languore ancora in “Insensatez” e poi – dopo una lunga, gommosa introduzione di basso – fare esplodere tutto con un medley in cui convergono Stanley Clarke, Ohio Players, Bobby Womack, Stevie Wonder e O’Jays, praticamente un orgia nel migliore soul del periodo. Ci si gasa assai!
Come sempre spettacolari i booklet dei dischi, ricchi di foto inedite, interviste, testi. Operazione Grant Green funky promossa a pieni voti!