Maggio Elettrico: del suono estremo
Due serate curate da Tempo Reale all’interno del Festival del Maggio Musicale Fiorentino
Una cosa è certa. Dai concerti di Tempo Reale non si esce mai indifferenti. Si accavallano sempre nella testa suggestioni, riflessioni, fascinazioni, sorprese e déjà-vu. Non fanno eccezione le due serate di Maggio Elettrico – con il suono sempre protagonista – programmate all’interno del Festival del Maggio Fiorentino nella Sala Orchestra (che meraviglia architettonica e sonora!) del Teatro del Maggio.
Sotto l’etichetta Suoni al futuro Tempo Reale ci aggiorna ancora sulla strada di ricerca che il laboratorio fondato da Luciano Berio sta portando avanti: nel primo appuntamento sulla relazione possibile tra strumenti musicali estesi (fiati, corde) e dispositivi tecnologici, oggetti di uso quotidiano (in questo caso, stampante ad aghi, scanner, levigatrice, floppy disk, hard disk…) anche obsoleti che riprendono vita, diventano protagonisti invece di finire smaltiti in discariche inquinanti nei paesi poveri del mondo. Alla Biennale Musica del 2016 Tempo Reale aveva estremizzato questo percorso con Symphony Device dove oltre trenta dispositivi hackerati (controllati e comandati da una regia) dialogavano tra loro in una classica struttura compositiva, quella sinfonica.
Il trait d’union delle due serate è la presenza, accanto all’elettronica, di musicisti e strumenti acustici. Il rosso risvegliato (e compresso) per due esecutori, fiati estesi e dispositivi (2017-18) di Alexander Chernyshkov – composizione presentata da Tempo Reale alla Biennale Musica 2017 – è un lavoro complesso che ipotizza, all’interno di un teatro sonoro, sviluppo drammaturgico. I dispositivi trasformati in nuovi strumenti musicali, hanno la capacità di emettere suoni propri sorprendenti, di essere gestiti nel rispetto di una partitura. In questo labirinto si inseriscono i fiati e le voci di Alessandro Baticci e Dario Fariello. L’improvvisazione, il gesto, la voce, la performance, irrompono nel dialogo dei dispositivi. Il contrasto è estraniante. Il sax di Fariello è dichiaratamente free. Slap, fischi, armonici, multisuoni, variazioni di registro. Passa poi al violino usato come una chitarra rock distorta. Si sovrappongono i flauti di Baticci, note lunghe lasciate vibrare, usa poi un bombardino con il quale emette suoni ancestrali, mentre vicino a loro la stampante diffonde ambientazioni quasi barocche. Scambio di voci surreali. Caos e volumi inudibili. É il momento più coinvolgente. Forse anche l’unico. Gli sviluppi seguenti risultano infatti parcellizzati in quadri staccati, più o meno interessanti, ma che non offrono una visione d’insieme, l’aspetto compositivo sfugge. Tutti i materiali, sonori e gestuali, messi in gioco si disperdono.
Nella seconda serata il violoncello è protagonista assoluto ma deve fare i conti con la potenza del suono sintetico, della massa satura dell’elettronica, che nello spazio lo (ci) circonda.
Il violoncello è uno strumento straordinario, malleabile, probabilmente è tra gli strumenti che meglio si sono aperti anche ai repertori contemporanei grazie a compositori e interpreti che ne hanno saputo tirare fuori aspetti inusuali, non accademici. Arne Deforce è sicuramente tra questi e le esecuzioni della seconda serata lo documentano ampiamente. Apre MYR-S (1996) per violoncello ed elettronica di Horacio Vaggione. Composizione breve, densa, succosa. La partitura costringe l’esecutore a un rapporto fisico con lo strumento estremo. Ne vengono fuori suoni spezzati, nervosi, contorti, lanciati in uno spazio che la regia del suono riempie e satura. Un live electronics di una potenza che pare sommergere strumento ed esecutore che a sua volta cerca colpendo il legno, violentando, grattando le corde con l’archetto, di rispondere. Chi ascolta può scegliere di resistere o lasciarsi andare nel vortice, Deforce può solo battersi fino alla fine e lo fa benissimo.
Foris (2012) di Raphaël Cendo – per violoncello, elettronica e spazializzazione su sei canali – potrebbe apparire una prosecuzione naturale del brano precedente, dato che si muove in quella estetica. Ma per lunghezza, apertura a spazi più morbidi e un finale sussurrato con l’archetto che sfiora la cordiera se ne allontana un po’. La spazializzazione amplifica a dismisura l’astrattismo della trama compositiva, ma sembra svilupparsi sulla linea di un compromesso, della ricerca di un punto d’incontro più che di un contrasto.
Il brano di chiusura Harm (2003) per violoncello, elettronica e video di Phill Niblock risulta il più emblematico. Trenta minuti di suono continuo, un accordo unico senza variazioni del violoncello, sull’andamento sussultorio dell’elettronica, mentre alle spalle di Deforce scorrono su due schermi affiancati delle immagini. Attività umane varie (pesca, agricoltura, scavi…) ambientate in paesi orientali, realizzate con uno statico taglio documentaristico. Un occhio fisso, come la musica, che guarda uomini donne che lavorano. Come ci si rapporta con un’opera del genere? Si può cercare un nesso possibile tra immagini e suono. Ci si può concentrare sulle immagini, usando il suono come sottofondo. Vice versa, ci si può inoltrare nella struttura musicale fregandosene delle immagini. Chi poi possiede capacità di concentrazione può chiudere gli occhi e vivere una profonda esperienza meditativa. Le opzioni sono varie, ma ci si può anche ampiamente annoiare.
Le riflessioni, dopo le due serate di Suoni al futuro, sono molte. Potremo dire per fortuna, i concerti ingessati non ci piacciono proprio. Si esce in realtà più con domande che risposte, sulla funzione della musica, la sua filosofia, le relazioni dei suoi aspetti sperimentali e di ricerca, con le tecnologie, la classicità e l’avanguardia storica. Anche sul concetto di nuovo del quale spesso si abusa proponendo poi cliché, stereotipi che confermano proprio il contrario, l’assenza del nuovo. Ascoltare suoni davanti ad altoparlanti e dispositivi rappresenta una bella scommessa che ci attiva e responsabilizza come fruitori, ma la presenza di strumenti, esecutori che si mettono in gioco con mente, corpo e sudore ci offre un’emozione a noi più vicina, un arricchimento percettivo. Fa sì che il suono non si chiuda in puro, asettico valore estetico, il fattore umano ci permette di orientarci meglio nei suoi vortici più estremi e radicali.
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