Quattro modi di dire addio alla vita
Pappano ha diretto a Santa Cecilia la Sinfonia n. 9 di Gustav Mahler
Antonio Pappano si è avvicinato a Mahler da non molti anni e in breve ne ha fatto uno dei suoi autori preferiti: in questa stagione abbiamo avuto occasione di ascoltarlo con i complessi dell’Accademia di Santa Cecilia sia al festival di Bucarest nella Seconda Sinfonia che a Roma nella Sesta (peccato che l’abbia incisa nel 2011, quando la sua interpretazione non aveva raggiunto l’attuale livello di approfondimento e maturazione) e ora nella Nona.
Scrivendo questa sinfonia, Mahler sapeva di essere vicino alla fine, poiché i referti medici dicevano chiaramente che il suo cuore non avrebbe continuata a battere a lungo. Bernstein l’ha descritta come quattro modi di dire addio alla vita, con riferimento ai suoi quattro movimenti. Pappano riprende l’affermazione di Bernstein, ma aggiunge che in questo addio alla vita sono rappresentati sia gli aspetti tragici sia quelli gioiosi e che in questa musica c’è tutto l’amore di Mahler per la vita. Ma la sua interpretazione è tra le più funeree che ricordiamo, come se l’addio alla vita sia stato già dato e la vita sia ormai alle spalle e stia svanendo nel nulla.
Il suono delle prime battute è immateriale, flebile, spettrale: la larva di un suono, a cui sia stato tolto tutto quel che è possibile togliere. Sia nel pianissimo, prevalente in questo movimento lento, sia nei pochi momenti in cui si tocca brevemente il fortissimo, questo è il paesaggio sonoro di un mondo desertificato. Le dolcissime melodie di Mahler, quasi zuccherose ma col veleno nel fondo, sono il ricordo di una dolcezza che non tornerà e che ormai neppure smuove più la commozione né suscita rimpianto. Assistiamo a crolli ripetuti che ogni volta si portano via una parte di quel mondo: sono improvvisi e apocalittici fortissimo, che spezzano il movimento, come se l’edificio sonoro venisse improvvisamente giù, sgretolandosi in un caotico e dissonante accavallarsi di note.
Spettrale anche il Ländler del secondo movimento: a danzarlo non sono contadini dalle scarpe grosse in una festa paesana ma fantasmi in un villaggio distrutto da una catastrofe. Il Rondò. Burleske ha qualche momento in cui il suono è più tondo e più pieno, ma sono soltanto episodi. Ha anche qualche momento di grande vivacità motoria, ma è la vivacità di un sabba infernale.
Solo all’inizio dell’Adagio c’è un momento di vera dolcezza, una melodia celestiale, ultraterrena, senza sentimentalismo: è come un limpido fiume che scorre lentamente, quasi immoto. Quando si giunge alle ultime battute, Mahler ha ormai detto addio al mondo e già guarda al di là della vita.
L’interpretazione di Pappano è intensa e distaccata allo stesso tempo, senza cercare facili complicità sentimentali con l’ascoltatore. Sotto l’aspetto tecnico è impressionante la capacità di trovare un timbro diverso e specifico quasi per ogni nota, conservando però un’unità di fondo data dal suono disincarnato e come prosciugato: un risultato come questo si può raggiungere solo con un’ottima orchestra e attraverso una totale e perfetta intesa tra orchestra e direttore.
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