A pochi mesi dall’importante obiettivo della nascita della Federazione nazionale Il Jazz Italiano, per scadenza naturale, i musicisti e le musiciste di jazz associate a Midj (Associazione nazionale dei musicisti di jazz) hanno dapprima eletto un nuovo comitato direttivo (composto da Marcello Allulli, Romina Capitani, Claudio Carboni, Claudio Fasoli, Alessandro Fedrigo, Simone Graziano, Lucia Ianniello, Antonio Ribatti, Gianni Taglialatela) e il comitato stesso ha eletto il nuovo presidente.
Si tratta del pianista toscano Simone Graziano (che avevamo intervistato non troppo tempo fa qui) , che già ricopriva la carica di vicepresidente, ora assegnata a Gianni Taglialatela.
Associazione che partiva dal nulla (o forse, peggio, addirittura dalle ferite della precedente esperienza associativa dei jazzisti di casa nostra, la controversa AMJ), Midj ha saputo in questi anni – grazie alla generosa tenacia della presidente Ada Montellanico e alla capacità di prodigarsi, tra mille difficoltà immaginabili, in diversi ambiti operativi – guadagnarsi un riconoscimento e un ruolo attivo nel più ampio movimento che sta cercando di adeguare strutturalmente il nostro mondo del jazz ai migliori standard europei, dato che artisticamente il valore è quello.
Abbiamo fatto con Graziano il punto sulla situazione e approfittato per chiedergli come sarà la sua Midj.
Quali i punti di arrivo della precedente presidenza (di cui tu sei stato vice) e quali quelli da cui partirai per lavorare in questa nuova fase?
«Midj ha concluso il precedente mandato con due importanti vittorie: la creazione e l’attuazione del progetto A.I.R. ideato da Paolo Fresu e la partecipazione alla fondazione delle Federazione del jazz italiano. Nell’ultimo mandato di due anni abbiamo dato vita a numerose iniziative che sono alla base dell’eredità che mi trovo a gestire oggi: le due residenze italo-francesi durante il festival Una striscia di terra feconda; il bando “L’Incontro” sulla composizione con annessa residenza artistica e concerto per il gruppo vincitore in collaborazione con Siena jazz; l’audizione al Senato per una nostra proposta di legge sullo spettacolo che ha visto accolta, nell’attuale legge sullo Spettacolo dal vivo, la delega al Ministero del lavoro per riformare la materia previdenziale-contributiva-assicurativa esattamente come avevamo chiesto noi; la partecipazione nell’organizzazione delle tre edizioni del Jazz Italiano per l’Aquila e la realizzazione di due libri fotografici come testimonianza di tutti coloro che vi hanno preso parte; l’apertura del tavolo di trattativa con la SIAE per il riconoscimento del diritto di improvvisazione».
«Le due partite decisive che dovremo affrontare sono il controllo sui decreti attuativi della legge dello spettacolo e ottenere il riconoscimento dalla SIAE della figura del musicista improvvisatore».
«In questo panorama le due partite decisive che dovremo affrontare sono il controllo sui decreti attuativi della legge dello spettacolo e ottenere il riconoscimento dalla SIAE della figura del musicista improvvisatore».
Quali sono le principali criticità che hai riscontrato e su cui intendi lavorare?
«Premetto che il lavoro svolto sin adesso è stato mastodontico se si pensa che Midj non esisteva fino a quattro anni fa. Il merito di tutto ciò va attribuito ad Ada Montellanico che è riuscita in questa impresa a dir poco titanica, e alla quale non si finirà mai di dire grazie, e a Paolo Fresu che ha avuto la “visione” di creare una Federazione del jazz italiano. Oggi una delle nostre debolezze è la scarsa adesione di Midj sui territori regionali: nonostante la presenza di ottimi referenti regionali, non siamo riusciti a coinvolgere i musicisti a livello locale. I motivi possono essere tanti, ma quella che ritengo esser stata la causa principale di tale assenza partecipativa è la difficoltà di trovare una chiave per l’aggregazione. Sembra banale a dirsi ma ritengo che nella musica ciò che unisce è il fare musica, nient’altro. Per ciò vorrei che Midj iniziasse ad essere di stimolo per la crescita artistico musicale in ogni regione italiana».
«A tal fine stiamo elaborando un nuovo progetto per la creazione di Laboratori Organizzati per la Vitalità Espressiva (L.O.V.E.). Tale idea nasce dall’esigenza di colmare un vuoto: esistono le scuole di musica, esistono i jazz club, esistono i festival, ma non esistono degli spazi dove i musicisti possono parlare della propria musica, o provarla davanti ad altri colleghi, discuterne, e farsi influenzare dagli altri musicisti. Mancano dei luoghi di aggregazione dove artisti, giovani e non, possano sperimentare delle soluzioni meno convenzionali e possano far crescere col tempo la loro idea di musica».
«Ogni regione italiana dovrà individuare e creare uno o più spazi dove i musicisti potranno provare dal vivo il loro materiale artistico musicale».
«In particolare ogni regione italiana, tramite i referenti regionali di Midj, dovrà individuare e creare uno o più spazi (nelle regioni più grandi si dovrebbero prevedere più luoghi per cercare di aderire maggiormente alla collettività) dove i musicisti potranno, con cadenza scelta dai referenti stessi (bimensile o mensile, ad esempio), provare dal vivo il loro materiale artistico musicale».
«Si potranno fare incontri con musicisti esperti, che racconteranno la propria visione della musica. Tale aspetto lo ritengo essere fondamentale per la crescita di una collettività: siamo abituati a sentir suonar i musicisti, a sentir il prodotto finito e confezionato, ma è molto raro che ci siano occasioni in cui l’artista racconti il suo percorso creativo e mostri come ha dato vita a ciò che sentiamo. Al tempo stesso, i referenti regionali tramite il supporto dei membri del direttivo di Midj, dovranno coinvolgere in tali spazi, i giornalisti, critici e gli organizzatori dei festival così da creare un legame unico tra i vari soggetti della filiera jazzistica».
Lo dicevamo, una delle cose con cui Midj ha sembra dovuto confrontarsi è una certa dose di sfiducia da parte di alcuni musicisti. Posto che ognuno decide in piena libertà e che esiste una fascia di musicisti che per natura ha un atteggiamento critico e poco collaborativo (ma magari perde ore a polemizzare sui social network), che tipo di messaggio vuoi dare a chi ancora non è convinto di aderire, ma potrebbe farlo?
«Ognuno è libero di pensare ciò che vuole. La verità è che Midj colma una lacuna del sistema: la tutela e la promozione dei musicisti di jazz. Torniamo indietro di quattro anni: non esistevano delle residenze che ti permettevano di andare, pagato e spesato, in 20 nazioni nel mondo (bando A.I.R.); non esisteva qualcuno che andava in Senato per tutelare il diritto dei musicisti jazz ad avere la pensione; né c’erano bandi sulla composizione o residenze artistiche con cadenza annuale. Tempo fa ero a suonare con un musicista che ha vissuto a lungo in Olanda ed è da poco tornato in Italia. Alla fine del concerto, parlando, mi ha detto di esser felice di star in Italia perché sentiva che sopra di lui c’era una struttura che lo tutelava e gli dava delle opportunità impensabili fino a qualche anno prima».
Midj è ora all’interno della Federazione Il Jazz Italiano. Quali le idee per cementare la collaborazione con gli altri soggetti?
«Penso che la nascita della Federazione sia un evento davvero storico per tutto il jazz italiano. Per me è il luogo più adatto per risolvere o provare a risolvere i numerosi problemi che il nostro mondo ha, grazie alla collaborazione di soggetti che si muovono in ambiti diversi ma complementari fra loro, quali i musicisti, i produttori, i direttori artistici e gli agenti».
«La nascita della Federazione è un evento davvero storico per tutto il jazz italiano».
«Un problema che senz’altro è trasversale a tutti i soggetti sopraelencati è la progressiva perdita di pubblico. Tutti noi ci accorgiamo di quanto questo stia invecchiando e dell’assenza di partecipazione da parte delle nuove generazioni. Un progetto sulla didattica e sull’introduzione alla musica improvvisata nelle scuole primarie e secondarie, come sta creando la Federazione, mi pare un ottimo inizio per colmare il gap generazionale e per gettare le basi per il futuro. I giovani non vanno ai concerti non perché non amano il jazz, ma perché non lo conoscono o peggio, lo conoscono male».
Qual è secondo te (o quali sono) l’aspetto (gli aspetti) della nostra scena jazz che ancora non sono stati compresi appieno e che con un lavoro di cooperazione potrebbero emergere?
«Possono essere tanti, spesso non compresi a causa della chiusura narcisistica. Tutti noi musicisti nella ricerca spasmodica del suonare perdiamo di vista qualcosa di più generale, ovvero una sorta di hegeliano spirito della comunità. Credo che pensando solo in termini egocentrici non si vada molto lontano. La forza sta nel creare una comunità unita, capace di sostenersi a vicenda, di superare le inutili classificazioni di genere e di aprirsi al diverso da sé».
«Credo che pensando solo in termini egocentrici non si vada molto lontano. La forza sta nel creare una comunità unita, capace di sostenersi a vicenda, di superare le inutili classificazioni di genere e di aprirsi al diverso da sé».
«Sostenere una collettività vuol dire tante cose, anche molto semplici, che qualunque musicista può fare. Le prime che mi vengono in mente sono andar a sentire i concerti dei colleghi quando vorresti startene a guardare una serie su Netflix; creare degli spazi dove fare house concerts, come un garage, un terrazzo o un salotto, per far suonare i musicisti che magari hanno un day off e non sanno come riempirlo; aiutare i musicisti più giovani ad addentrarsi nel mondo del lavoro condividendo i propri contatti e la propria esperienza; andar a veder concerti di musica diversa da quella che si suona (rock, elettronica, classica, purché non sia jazz); condividere (sempre) ciò che si è appreso, con gli altri senza esserne inutilmente gelosi. E poi sicuramente tante altre cose che ora non mi vengono in mente ma che lo spirito col tempo ci rivelerà».