Il Don Carlos nella versione più completa

Al festival di Lione l’edizione cosiddetta “della prova generale”, con il coro iniziale dei boscaioli e le danze

Don Carlos
Don Carlos
Recensione
classica
Opéra National, Lione
Festival Verdi I
17 Marzo 2018 - 06 Aprile 2018

Il festival primaverile dell’Opéra National de Lyon era dedicato quest’anno a Verdi, apparentemente la scelta più banale che si possa immaginare, ma non a Lione, dove Verdi negli ultimi tempi è diventato una rarità, senza che però il teatro ne risentisse in termini di affezione del pubblico, anzi è avvenuto esattamente il contrario. Già la recente scelta di Daniele Rustioni come chef permanent lasciava chiaramente intendere che il directeur général Serge Dorny aveva deciso di dare maggior attenzione all’opera italiana e così è stato. In tre giorni consecutivi si sono ascoltate tre opere di Verdi – Attila, Macbeth e Don Carlos, collegate tra loro dal tema del potere: il raffronto ravvicinato è stato estremamente interessante e ha permesso di toccare con mano come i cambiamenti stilistico-musicali di Verdi dall’Attila al Don Carlos vadano in parallelo col passaggio dal rude scontro frontale tra l’unno Attila ed il romano Ezio alle tortuose manovre politiche della corte spagnola.

Il clou del festival è stato il nuovo allestimento del Don Carlos, eseguito nell’originale francese – una rarità anche oltralpe – e nella versione cosiddetta “della prova generale”, cioè quella che include la maggior parte della musica scritta da Verdi, che venne tagliata già alla prima all’Opéra di Parigi nel 1867, soprattutto per motivi pratici, perché l’opera doveva finire prima che partissero gli ultimi treni per la periferia della metropoli. Verdi dapprima fu costretto a fare alcuni tagli, ma più tardi tagliò volontariamente per rendere più rapido e drammatico il precipitare degli eventi (ad esempio, i finali degli atti quarto e quinto) oppure fece degli interventi migliorativi (conclusione del duetto Elisabetta-Eboli nell’atto quarto). Egli stesso era d’altronde dubbioso su quale fosse la versione migliore e definitiva: la dimostrazione più evidente è l’oscillazione a proposito del primo atto, tagliato alla Scala e poi reinserito. Qui si può solo accennare a una questione che è molto complessa, ma Daniele Rustioni parla della versione eseguita a Lione in un’intervista rilasciata durante le prove.

La direzione di Rustioni realizzava perfettamente il colore particolare – ottenuto con sottili sfumature e velature, come si direbbe a proposito di un quadro - che deriva a quest’opera sia dalla lingua francese, con la sua abbondanza di vocali semimute e nasali, sia dal dramma, ambientato nella cupa corte spagnola, dove tutti devono trattenersi e nessuno, nemmeno il re, può agire in modo aperto ed esprimersi in modo diretto: tutto questo si rispecchiava mirabilmente in una concertazione che otteneva dall’orchestra fraseggi estremamente vari e mobili e sonorità attentamente calibrate e sfumate. Pur essendo un grand opéra, il Don Carlos ha infatti al novanta per cento un carattere intimista, ma inevitabilmente ha anche momenti grandiosi, realizzati altrettanto bene da Rustioni, che non è caduto mai nella magniloquenza esteriore, del tutto estranea a Verdi, cogliendone invece la grande drammaticità, come nella scena dell’auto da fé, più asciutta del solito e quindi più terribile e crudele.

Anche il cast messo era di ottimo livello complessivo. Michele Pertusi è stato un Filippo II tenebroso, che oscillava tra cupa imperiosità e melanconica debolezza, culminando in un’intensa e indimenticabile “Ella giammai m‘amò” e nel successivo duetto con Roberto Scandiuzzi, che è stato un Grande Inquisitore temibile e imponente, senza bisogno di dover mai alzare troppo la voce e tanto meno di gridare, come spesso si sente: queste due scene sono destinate a rimanere un momento apicale nella “carriera” di un ascoltatore d’opera. I due bassi italiani certamente non erano una sorpresa, mentre sorprendenti sono stati gli altri protagonisti, alcuni dei quali erano al loro debutto in Verdi. Probabilmente erano stati scelti proprio per questa loro “verginità”, in quanto il Don Carlos non va cantato come le altre opere di Verdi, perché il francese esige una vocalità molto più sfumata dall’italiano e soprattutto perché i personaggi sono diversi, devono sempre trattenersi e mai esternare con passione i loro sentimenti e i loro pensieri, se non vogliono firmare essi stessi la propria condanna, come avviene ad Eboli e a Posa. Don Carlos in particolare differisce moltissimo dal tipico tenore verdiano e Sergey Romanovsky, superato un iniziale momento di nervosismo, è stato irreprensibile in una parte le cui difficoltà sono ben più complesse e insidiose degli acuti del Duca di Mantova e di Manrico. Se la pronuncia francese del tenore russo era perfetta, non altrettanto può dirsi di Sally Matthews, che ha delineato un’Elisabeth giustamente regale, ma troppo altera e distaccata e poco sensibile ed elegiaca: nel suo caso si direbbe prematuro il passaggio a un ruolo drammatico come questo, avendo come unica esperienza verdiana la Nannetta del Falstaff. L’Eboli di Eve-Maud Hubeaux era ai suoi antipodi: una pantera sensuale e aggressiva, dalla voce risonante e ferma, che s’imponeva ogni volta che entrava in scena. Stéphane Degout, confermando la sua classe e la sua eleganza, ha offerto un nobile e pregnante ritratto di Posa.

La regia era affidata a Christophe Honoré, molto noto e apprezzato in Francia come regista cinematografico e teatrale, con qualche precedente esperienza anche nell’opera. Lì per lì si poteva essere sviati ed anche irritati da alcune sue trovate, ma a ben riflettere la sua impostazione era sostanzialmente rispettosa. Qualche intervento personale andava nella direzione giusta, come l’esplicitazione dell’amore che travolge al primo sguardo Elisabeth e Carlos nell’atto di Fontainebleau e che non è solo passione romantica ma anche attrazione fisica. Bisogna dargli atto di una scena dell’auto da fé migliori che si ricordi, poco sfarzosa, perfino povera, ma asciutta e dura, crudele e spaventosa, con le fiamme (vere) che alla fine avvolgono i condannati (precedentemente garrotati, come pare che effettivamente si facesse). Che Eboli abbia una gamba offesa e si muova su una carrozzella per invalidi può sembrare gratuito, ma ha una sua reale funzione drammatica, perché dà molto risalto alla sua presenza in scena. Altre idee di per sé giuste venivano rovinate col sottolinearle troppo insistentemente, come se si temesse che lo spettatore fosse lento a capire: per evidenziare la già evidente sensualità della “Canzone del velo” basterebbe poco e non ci sarebbe bisogno bisogno che Eboli si accarezzi voluttuosamente né che passi poi ad accarezzare il paggio Thibault, contagiando le altre dame che si strofinano su Posa quando questi entra: così si sfiora il ridicolo.

Le scene di Alban Ho Van erano prevalentemente nere e minimaliste, i costumi di Pascaline Chavanne in parte rinascimentali e in parte moderni: dunque tutto secondo le regole prevalenti al di là delle Alpi. Le coreografie di Ashley Wright erano assolutamente estranee alla musica e il loro senso era alquanto oscuro: questa regola è invece quasi universalmente applicata nei balletti delle opere.

In estrema sintesi, nonostante sia quasi inevitabile che non tutto possa piacere in quasi cinque ore di spettacolo, si è assistito ad una realizzazione del Don Carlos francese assolutamente convincente, che con intelligenza e attenzione ne ha colto il carattere, il colore e le atmosfere particolari, che lo rendono così diverso dal Verdi più tipico.

 

 

 

  

 

 

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