Vijay Iyer, matematica ed emozione del solo
Il pianista indo-americano al Piacenza Jazz Fest regala un set in solitario intenso e memorabile
Lee Konitz, Michel Portal, Dave Douglas, Uri Caine, e infine anche un solo di Vijay Iyer: tra le altre cose, questo, tra le mille in programma, ha portato e porterà nell'ultimo capoluogo a nord ovest in Emilia la quindicesima edizione del Piacenza Jazz Fest.
Molto atteso, il concerto del pianista indo-americano, da anni oramai su ECM. Al cospetto di un imponente organo (sarebbe molto interessante sentirlo a questo strumento, credo) Iyer nel suo solo sciorina il vocabolario della lingua che gli conosciamo già: attacca con una cadenza blues fratturata e sorniona, con un mood cerebrale che guarda a Monk ma non ne conserva lo spleen opaco e dondolante. Gli studi scientifici compiuti da Iyer sembrano trovare corrispondenza in un pianismo molto di testa, dove lunghe ipotesi matematiche convivono con un'attitudine inizialmente un poco rigida: un basso in 5/8 porta dritti dalle parti di certo Jarrett, quando su una figura appena accennata fioriscono cattedrali melodiche che però non paiono visitate dal Dio dell'ispirazione.
Poi, con il terzo pezzo, finalmente si comincia a prendere il volo: ombre tayloriane, un laboratorio dove atomi armonici assumono imprendibili e imprevedibili forme, in un moto browniano che ha la naturalezza e il respiro di certa musica classica. Epifanie nel registro alto della tastiera che ricordano Egberto Gismonti, spezie indiane sempre però dosate con controllo, quasi con cautela, a volte un filo eccessiva. Una vertiginosa versione di "I've Got You Under My Skin" ci tiene su quote molto elevate, oltre la nostra atmosfera, ma non soffriamo vuoti d'aria né manovre d'assestamento. Il pilota conduce il velivolo con mano sicura, tra labirinti e specchi deformanti, guidato sempre da una visione nitida e precisa.
Si avverte talvolta una certa freddezza nell'approccio, che è l'unico appunto che ci sentiamo di fare a un musicista che ha saputo entusiasmare con alcuni suoi progetti (in particolare nella formula a trio, come nell'ottimo Historicity, uscito su Act, oppure con i feroci e calibratissimi Fieldwork, visti live anni fa nella formazione con Steve Lehman al sax e Tyshawn Sorey alla batteria, o nel gioiello Thirta, con Prasanna e Nitin Mitta, per non dire degli ultimi lavori su ECM) e ha fornito dita e cervello all'Arte maiuscola di giganti quali Wadada Leo Smith, Roscoe Mitchell o il Trio3 di Oliver Lake, Reggie Workman ed Andrew Cyrille (l'ottimo Wiring, su Intakt, del 2014).
Ansie minimaliste, rigori da composizione accademica, frammenti di songs immortali (riconosciamo "Night and Day" di Cole Porter, vestita di mille nuove prospettive con una sete e una capacità esplorativa tra i tasti che fanno pensare al pianismo orchestrale di Uri Caine), sguardi all'indietro per proiettarsi nel grande blu ignoto ("Black and Tan Fantasy" di Duke Ellington), Raga e blues collidono felicemente nell'attitudine del musicista di Albany, sempre asciutto e poco emotivo, a tratti forse lievemente professorale (non a caso ha una cattedra ad Harvard nel dipartimento di musica) ma capace comunque di ipnotizzare quando suona come un Paul Bley perso in un tempio di Shiva.
Il jazz è musica della scoperta, dell'esplorazione, e c'è ancora così tanto da viaggiare...
Tra composizioni autografe, improvvisazione ragionatissima ma mai telecomandata, fughe come ultimi errori del Novecento, fantasmi di gospel bianchissimo, lo swing tutto mentale di una marching band che bagna l'anima nel Gange invece che nel Mississipi, Iyer poco a poco cattura pienamente la platea e concede anche un tris. Poi se ne va, silenzioso ed elegante com'è arrivato, senza aver detto una sola parola.
Questa estate ci è capitato di vedere in solo Tyshawn Sorey, al festival di Sant'Anna Arresi, in Sardegna, e abbiamo gridato al miracolo. Stasera non siamo a quei livelli, ma al netto del curriculum e della pletora di premi, abbiamo ascoltato un musicista capace di seminare domande più che di dare risposte facili o consolatorie: del resto, il miracolo della comunicazione è capirsi nonostante le spiegazioni, e anche se, come spesso nel jazz, quello che ci è arrivato anche stavolta è un segreto che sfuma nell'indicibile – il messaggio è arrivato, forte, nitido e chiaro. Nel tris concesso a un pubblico oramai pienamente conquistato Iyer chiude il pezzo lasciando in un limbo interlocutorio il tema, aprendo al silenzio definitivo in un punto inaspettato: il jazz è musica della scoperta, dell'esplorazione, e c'è ancora così tanto da viaggiare...
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