L’Africaine da un altro mondo
All’Oper Frankfurt accoglienza contrastata per l’allestimento di Tobias Kratzer dell’opera di Meyerbeer
Cose dell’altro mondo. O meglio, cose da un altro mondo. Sì, perché il regista Tobias Kratzer nella sua nuova Africaine manda Vasco de Gama alla conquista dello spazio e a sedurre la regina di un popolo di umanoidi tutti blu che sembrano ai Na’vi del pianeta Pandora di Avatar, il blockbuster di James Cameron di una decina di anni fa. Con la complicità dello scenografo e costumista Rainer Sellmaier e il supporto fondamentale delle luci di Jan Hartmann e le videoproiezioni di Manuel Braun, fa carta straccia della posticcia cornice storica dell’ultimo e più scombinato fra i blockbuster grandoperistici della premiata ditta Meyerbeer&Scribe e tratta il lavoro per quel che è: una pura macchina di intrattenimento spolverata di un tocco di esotismo da fumetto, che nell’allestimento francofortese viene aggiornato all’immaginario cinematografico dello spettatore contemporaneo. E che il consiglio dell’Ammiragliato della Lisbona del 1500 si trasformi nel consesso di tecnocrati di Agenzie spaziali, che i vascelli portoghesi siano asettiche astronavi o che il lussureggiante paesaggio tropicale dell esotico regno di Selika sia sul pianeta Pandora, in fondo, che importa? Curioso però come un Vasco de Gama in tuta e casco sferico da astronauta, come si conviene a un navigatore dello spazio, e una regina Selika dalla pelle blu – ossia la sedicente africana a capo di un popolo devoto al culto di Brahma, Vishnu e Shiva, e suicida sotto l’albero di manzanillo, diffuso per lo più nell’America centrale (tanto per dire della coerenza dello script originale) – abbia spaccato a metà il pubblico accorso numeroso alla prima con vivacissime contestazioni rivolte esclusivamente al team registico.
Nessuna contestazione, invece, per i protagonisti della parte musicale, a cominciare da Michael Spyres, un Vasco de Gama dalla voce piena e dalla bella linea lirica, uno dei pochissimi tenori con le carte in regola per reggere oggi la sfida dell’impossibile scrittura vocale meyerbeeriana. Gli tengono testa le due bravissime rivali in amore Claudia Mahnke, una Selika di sana e robusta costituzione vocale, che cresce progressivamente fino a spadroneggiare nella grande scena del finale, e Kirsten MacKinnon, una Ines personaggio a tutto tondo e dalla spiccata personalità e non certo pallido strumento per sterili vocalizzi. E nella lunga lista dei “supporting singers” andranno almeno citate le ottime prove di Brian Mulligan, un Nelusko muscolare come un Hulk tutto blu ma che disegna con elegante sensibilità le tensioni del servitore fedele e amante respinto, e di Andreas Bauer, un Don Pedro spavaldo e antipatico come si addice al cattivo da grande schermo.
La direzione di Antonello Manacorda purtroppo difetta un po’ della vivacità della parte visiva nei momenti dell’avventura (e soprattutto nell’immancabile momento grandoperistico del terzo atto) ma è soprattutto attenta alla dimensione lirica e sentimentale della partitura e cresce comunque sulla distanza. L’attento dosaggio di colori, forse eccessivo nei momenti d’azione, si apprezza soprattutto nelle languorose scene del finale. Di spessore come sempre la prova della Frankfurter Opern- und Museumsorchester e buona quella del coro rinforzato del teatro, pur con qualche impaccio nei movimenti di scena.
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