Pappano per Bernstein
Roma: a Santa Cecilia l’integrale delle Sinfonie per il centenario della nascita del compositore americano
Leonard Bernstein è stato uno dei più grandi e più amati direttori d’orchestra degli scorsi decenni ma a lungo è stato poco considerato come compositore negli ambienti della musica “seria”, sebbene per milioni di persone le cose stessero esattamente al contrario, perché avevano visto West Side Story al cinema ma non lo avevano mai sentito dirigere in sala da concerto.
Senza ribaltare questi giudizi e fare di Bernstein un sommo compositore, i due concerti – ognuno con tre repliche – dedicati dall’Accademia di Santa Cecilia alle sue tre sinfonie hanno messo meglio a fuoco il Bernstein compositore. Va detto preventivamente che le sinfonie sono le sue musiche da concerto di più vaste dimensioni ma non necessariamente le migliori: non tanto perché le prime due sono opere giovanili - la prima del 1942-44, la seconda del 1949 – quanto perché nella forma classica non si sentiva perfettamente a suo agio. Bernstein stesso ne era consapevole, infatti le sue sinfonie si possono chiamare tali solo per la vastità delle dimensioni e dell’organico, ma in realtà sono piuttosto un incrocio tra una cantata e un poema sinfonico – o un concerto, nel caso della seconda, che ha un importante parte solistica del pianoforte - come alcune sinfonie di Mahler, che infatti Bernstein amava moltissimo e di cui era un grandissimo interprete, e di Shostakovich.
L’impressione è che Bernstein dia il meglio di sé in presenza di un testo, da cui lasciarsi guidare, senza dover pensare la musica come qualcosa di astratto, come pura forma sonora. Nel primo movimento della Sinfonia n. 1 “Jeremiah” si riconoscono echi di Bartok, Stravinsky e Shostakovich, la cui Sinfonia n. 7 “Leningrado” l’aveva molto colpito. Nel secondo movimento si afferma il vitalismo ritmico tipico di Bernstein, che già prefigura le danze di West Side Story. È nel terzo movimento, quando un mezzosoprano – la voce pura ed emozionante di Marie-Nicole Lemieux – intona in ebraico alcuni capitoli delle Lamentazioni di Geremia, che emergono il dono melodico di Bernstein e la sua enorme comunicativa, che sa parlare direttamente all’ascoltatore e toccargli il cuore. Qui non ascoltiamo un Bernstein vitalistico, dinamico ed esuberante, come veniva e viene generalmente rappresentato, ma un altro Bernstein, il Bernstein che amava sì la vita, le persone e la musica, ma allo stesso tempo aveva una profonda vena di malinconia e pessimismo, perché conosceva il male del mondo e le sofferenze dell’umanità, come gliele avevano insegnate la sua cultura ebraica e secoli di persecuzioni dei suoi antenati europei.
La Sinfonia n. 2 è più matura, è libera da influssi troppo evidenti, ha una scrittura sofisticata - perfino troppo, fino a rischiare il calligrafismo - e ha una forma più organica, ma si sente che manca a Bernstein il supporto del testo, non bastando come guida il solo titolo “The Age of Anxiety”, che fa riferimento al poemetto omonimo di W. H. Auden. L’impressione – la mia impressione – è che la musica giri un po’ a vuoto. I momenti migliori sono il ritmo danzante del penultimo movimento (“Maschera”) con il pianoforte virtuosistico (la brava Beatrice Rana) e le percussioni sincopate e poi il finale, che realizza quella pura e radiosa bellezza ideale, che Bernstein talvolta sognava e di cui l’esempio più alto è la Serenade ispirata al Simposio di Platone.
La parola è presente dall’inizio alla fine della Sinfonia n. 3 “Kaddish”: sono le parole cariche di asprezza e tormento della voce recitante (l’intensa e drammatica Josephine Bartsow) e quelle serene e fiduciose ma anche con momenti di tensione del soprano (la celestiale Nadine Serra), delle voci banche e del coro di adulti. È proprio la presenza della parola a dare potenza espressiva e coerenza musicale a questa che è indubbiamente la più riuscita e convincente delle sinfonie di Bernstein.
Ma forse il Bernstein più autentico e spontaneo è quello del breve Prelude, Fugue and Riffs, scritto per un gigante del jazz come Woody Herman e la sua big band, che però non lo eseguirono mai, cosicché la prima avvenne dopo vari anni con un altro leggendario clarinettista, Benny Goodman. Il preludio e la fuga annunciati dal titolo in realtà non ci sono e servono solo come ironico riferimento a una forma tradizionale. Ci sono invece i riffs, cioè le ripetizioni di uno stesso motivo, ogni volta con un’armonia diversa: qui Bernstein è irresistibile e può sfogare liberamente tutta la sua travolgente musicalità. Sensazionale è anche Alessandro Carbonare, primo clarinetto dell’orchestra romana. L’orchestra al gran completo ha suonato benissimo nel resto del programma, sotto la bacchetta di Antonio Pappano, che – non dimentichiamolo – è cresciuto in America e ha più di un’affinità con Bernstein, con cui condivide il rapporto diretto e molto comunicativo con la musica da una parte e il pubblico dall’altra.
Ora, come appendice, bisogna parlare del Concerto per violino di Brahms, che completava il secondo programma. La solista era Kyung Wha Chung, che nel 2005 si è ritirata per un grave infortunio alla mano e ha ripreso a suonare in patria dal 2010 e sulla scena internazionale dal 2014. Conoscendo Pappano e la sua dote di mettersi subito in sintonia con i solisti, avevamo previsto dal suono pieno e dal piglio energico dell’introduzione orchestrale che tale sarebbe stata anche l’interpretazione della violinista coreana, che invece ha iniziato con un suono incerto, un timbro povero e continue disuguaglianze tra una nota e l’altra, finché ha fatto cenno a Pappano di fermarsi. Che era successo? Semplicemente non aveva accordato bene. Dopo aver accordato, ha ricominciato e allora abbiano ascoltato un’altra Chung: suono robusto, pieno e omogeneo ed interpretazione equilibrata e solida, senza precludersi qua e là qualche tocco originale, più o meno condivisibile. Insomma abbiamo ritrovato la grande violinista che la Chung era e di cui salutiamo con piacere il ritorno.
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