Gergiev porta la Iolanta di Čajkovskij a Santa Cecilia
È iniziato a Roma il Festival Čajkovskij, che proseguirà con l’integrale delle sinfonie
Il solo del corno inglese nell’introduzione della Iolanta ricorda quello dell’inizio del terzo atto del Tristano e qualche altra eco di Wagner affiora qua e là – alquanto sorprendentemente, perché Čajkovskij nell’ultimo decennio dell’Ottocento era uno dei pochi a resistere ancora alle sirene wagneriane. Si tratta di ben poco, ma è comunque indicativo della singolarità di quest’atto unico nella produzione teatrale del compositore russo. Non ci sono le passioni e la drammaticità in presa diretta come l’Onegin e della Dama di picche ma tutto è stemperato nel delicato lirismo di una fiaba gentile, la cui protagonista è una fanciulla cieca dell’epoca dei trovatori e dell’amor cortese, che riacquista la vista per amore.
Tutti oggi abbiamo imparato che le fiabe non sono soltanto delle storielle fantasiose ma hanno radici che affondano nell’anima dei popoli e nell’inconscio dei singoli e anche Čajkovskij con i suoi balletti aveva dimostrato di saperlo, ma al momento di mettere in musica questa fiaba di un autore danese (no, non Andersen ma Hertz) scelse di dimenticarsene, non avendo occhi che per il delicato lirismo e la gentile tenerezza di questa fantasia.
Ciò che seduce in quest’opera sono soprattutto le atmosfere soffuse e indefinite, allo stesso tempo malinconiche ed edonistiche, che alludono a qualcosa di misterioso, accogliendo suggestioni del nascente simbolismo: con questo non si dice che ci sia un presentimento del Pelléas et Mélisande, questo no, ma della Demoiselle elue forse sì, specialmente nelle parti della protagonista e delle sue tre amiche ed ancelle, ma anche parzialmente in quella del padre. D’altronde un anno solo separa l’opera di Čajkovskij (1892) dal poema lirico di Debussy (1893). Ma forse Debussy è, al pari di Wagner, soltanto un miraggio. Invece alcune parti più sentimentali appartengono certamente al più puro Čajkovskij. Meno convincenti sono quelle parti, soprattutto allo scioglimento della vicenda, in cui il compositore, dopo aver navigato prevalentemente tra il piano e il mezzo piano, alza il volume per significare il recupero della luce da parte di Iolanta ma sfiorando l’esteriorità.
Va dato atto all’Accademia di Santa Cecilia di aver presentato Iolanta tre volte in poco più di trent’anni, la prima volta nel 1985, quando era praticamente sconosciuta in Italia e anche all’estero, perfino in Russia. Ultimamente se ne è avuta qualche altra esecuzione in Italia, ma solo a Firenze – salvo errore – in forma scenica, altrimenti sempre in forma di concerto. Cosicché lo scrivente è un po’ nella situazione di Iolanta stessa, a cui, per non farla soffrire della sua cecità, è stato nascosto che ci sia qualcosa da vedere. Ed è felice così. Insomma non soltanto sono contento e soddisfatto di aver sempre ascoltato Iolanta in forma di concerto ma non capisco neppure cosa ci sarebbe da vedere, perché quest’opera è totalmente priva d’azione.
Probabilmente è stata la qualità dell’esecuzione a soddisfare l’udito al punto da non far pesare che non ci fosse nulla per la vista. Meravigliosa, questo è l’aggettivo che meglio le conviene. Gran parte del merito va indubbiamente a Valery Gergiev, che conoscevamo soprattutto per l’estrema tensione, per l’espressività eccitata, per la fisicità del suono ma che qui ha mostrato altrettanta sensibilità per il suono trasparente, morbido, delicato, venato di malinconia. Ottima protagonista Irina Churilova, voce pura, dolce, tenera, ma all’occorrenza anche capace di dominare un’orchestra e una sala così grandi. Tutti i cantanti – portati da Gergiev in blocco con sé da San Pietroburgo – erano di eccellente livello: ci limitiamo qui a citare i quattro protagonisti maschili, Stanislav Trofimov (René), Najmiddin Mavlyanov (Vaudémont), Alexei Markov (Robert) e Roman Burdenko (Ibn-Hakia). Ottima la prestazione dell’orchestra e del coro, preparato da Ciro Visco.
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