Valencia inaugura con Don Carlo
E il sovrintendente Livermore si è dimesso
C’era un certo nervosismo per la prima del Don Carlo con cui si è aperta sabato scorso la nuova stagione dell’opera di Valencia. Intanto le dimissioni del sovrintendente Davide Livermore, annunciate pochi giorni prima, hanno colto tutti di sorpresa e hanno creato un vuoto alla direzione del teatro che potrà essere colmato solo a stagione quasi finita, quando saranno cioè passati i sei mesi necessari per realizzare il concorso pubblico. Preoccupati per il futuro del loro teatro e riconoscenti per il lavoro svolto in questi due anni dal regista torinese, i valenziani presenti alla prima si sono fatti sentire: prima che s’alzasse il sipario una signora ha chiesto a gran voce, e ottenuto, un applauso per il direttore dimissionario (ribattezzandolo alla Donizetti: «Maestro Livermoor»), mentre a introduzione della seconda parte della serata, si è potuto ascoltare uno spettatore dare pubblicamente del codardo all’assessore regionale alla cultura, non presente all’inaugurazione della stagione.
Anche in scena si è avvertita una certa tensione, in particolare all’inizio, come se cantanti e orchestra stentassero a mettere a fuoco il dramma verdiano. L’impressione generale è che questo Don Carlo, con un po’ di rodaggio in più, diventerà solo nelle prossime repliche uno spettacolo pienamente riuscito. L’attesa direzione del giovane valenziano Ramón Tebar, alla sua prima “prima” al Palau, è risultata infatti un po’ cauta e più attenta a certi dettagli di sonorità e alla tenuta dell’insieme che non impegnata a trascinare il pubblico nell’intrico delle passioni messe in campo. Certo questa è la più contorta delle opere di Verdi, dove le indecisioni dei personaggi rendono difficile la sfogo catartico, ma pur tenendo in conto il contesto del debutto, Tebar sembra direttore dal temperamento distaccato ed è quindi riuscito meglio nelle scene d’ambiente che non in quelle psicologiche.
Tra i cantanti era al suo debutto anche Andrea Carè, tenore dalla tempra adatta al ruolo, dotato di una bellissima dizione e di un timbro luminoso, purtroppo viziato dalla tendenza a spingere sugli acuti che sono presi tutti di forza e così schiacciati. Ammirevole vocalmente invece la Isabella di Maria José Siri che, pur non brillando per sottigliezze espressive, ha fatto sfoggio di virtuosistiche messe di voce e acuti pieni e rotondi. Discorso analogo per Alexander Vinogradov che ha dato al suo Filippo una voce imponente, ma risvolti poco problematici, e per il bravo Marco Spotti nei panni di un Inquisitore finalmente molto incisivo, non il solito fantasma dall’oltretomba. Su un altro livello Violeta Urmana (Eboli) e Placido Domingo (Rodrigo), certamente meno impeccabili dal punto di vista vocale, ma più emozionanti perché capaci di infondere vita ai loro personaggi.
La buona riuscita della serata si è dovuta anche all’ottimo coro della Generalitat Valenciana, dal suono potente, ma mai gridato, e alla regia di Marco Arturo Marelli, che è riuscito a dare un’evidente linearità a un dramma quanto mai intricato e giocato su più livelli. Le uniche riserve che si potrebbero fare vanno a certe pose un po’ melodrammatiche che si sono viste qua e là, forse attribuibili a libere iniziative dei cantanti, e alla costante oscurità delle scene, dei blocchi austeri semoventi, riutilizzabili pari pari per un ascetico Parsifal, con il risultato che la scena del giardino e quella dell’auto da fé, mancavano rispettivamente di freschezza e splendore, due ingredienti che avrebbero aggiunto contrasto drammatico alla cupa tragedia.
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