Purtimiro chiude con i Madrigali
Il Festival di Lugo si è concluso con una splendida esecuzione di Monteverdi
L’ultimo fine settimana del festival Purtmiro di Lugo è iniziato dall’oratorio in due parti di Antonio Caldara su libretto di Metastasio, il cui titolo completo è La morte d’Abel figura di quella del nostro Redentore, eseguito nel 1732 nella Cappella Imperiale di Vienna. Nel libretto viene definito "componimento sacro per musica applicato al suo SS. Sepolcro" e tale descrizione rimanda alla specifica tradizione delle opere sacre commissionate dalla corte asburgica per essere eseguite nella Settimana Santa attorno alla croce.
Il libretto del Poeta Cesareo venne messo in musica da numerosi altri compositori, ad iniziare da Leo nello stesso anno a Bologna, per finire con Morlacchi nel 1821 a Dresda, ma Caldara fu il primo, anche se in passato La morte d’Abel è stata attribuita al suo allievo Georg Reutter, così come il suo primo interprete fu il celebre Farinelli. Effettivamente tra le arie dei cinque “interlocutori” della azione sacra, Caino, Abele, Eva, Adamo e un Angelo, rispettivamente Gaia Petrone, Sonia Tedla, Monica Piccinini, Mauro Borgioni, e Alessandra Gardini, quella del buon germano “L’ape e la serpe spesso” risulta più impegnativa e complessa delle altre, che comunque si prestano alla esibizione del virtuosismo vocale. Nonostante una certa severità, lo stile di questo oratorio non si distacca dalle consuetudini operistiche della scuola veneziana della prima metà del Settecento nella alternanza di recitativi e arie, con la differenziazione dell’accompagnamento del continuo tra organo e cembalo, rispettivamente per Abele e Caino. Particolarmente interessanti sono apparsi i cori finali a quattro della prima e della seconda parte, per la combinazione tra la scrittura contrappuntistico imitativa e quella madrigalistica. Nonostante la notorietà della vicenda biblica, la mancanza di un programma di sala con il libretto, o almeno di un elenco delle arie con una sinossi delle vicende raccontate in versi sarebbe stata molto gradita e se ne è avvertita la mancanza.
Dopo il concerto inaugurale del Festival dedicato alle musiche clavicembalistiche di Bach trascritte da Alessandrini per archi e continuo, il secondo programma dedicato al compositore tedesco ha rappresentato la sua ideale continuazione. Il concerto infatti è stato costruito da Rinaldo Alessandrini ed Enrico Gatti scegliendo pagine che rappresentano, come indicato dal titolo Crossdressing Bach, il cambiamento d’abito strumentale, ossia varianti e adattamenti delle proprie musiche compiuti dall’autore con risultati interessanti e affascinanti, soprattutto per la Sonata in re minore per cembalo BVW 964 mutuata da quella per violino solo n° 2 in la minore BWV 1003, e la Sonata in re maggiore per violino e cembalo BWV 1028 che in origine era nata per la viola da gamba. Bach trascrittore di se stesso, non delle musiche altrui per studiarne e assimilarne lo stile e la tecnica, ma spinto dal bisogno di rispondere alle sollecitazioni quotidiane dei suoi committenti in relazione alla disponibilità di effettivi organici strumentali, o motivato dalla voglia di riflettere sul proprio pensiero musicale affinando e sperimentando il passaggio da uno strumento all’altro. In ogni caso nell’intimità del dialogo alla pari tra violino e cembalo il concerto è volato via lasciando il pubblico con la voglia di continuare ad ascoltare quella fonte inesauribile di musica.
I due intermezzi già presentati la sera del 7 ottobre sono stati replicati nel pomeriggio della giornata conclusiva del festival, con una bella affluenza di pubblico e la presenza di giovani, probabilmente studenti delle scuole superiori. Il primo – Fidalba e Artabano, del bolognese Giovanni Alberto Ristori, venne presentato a Dresda, dove si svolse la parte più importante della sua carriera di compositore. La sua prima rappresentazione in epoca moderna non ha suscitato sorprese per via di una trama ridotta alla schermaglia amorosa del corteggiamento di Artabano toscano verso Fidalba di Alba che rifiuta le sue profferte amorose dall’inizio alla fine, senza alcun intrigo o travestimento. L’evidente omaggio alla corte committente si è palesata già nel primo recitativo, “Io qua m’en venni al glorioso grido di questa eroica corte” e “Io pur qua vengo per veder, se posso, tutte le sue grandezze” e poi nella seconda delle sue tre parti, quando i due protagonisti elogiano “il grande coronato” la “bella principessa” e il principe e il luogo dove “tutto è bel, tutto è buono e tutto è grande.”. La sua semplicità è strettamente funzionale al genere ma la gradevolezza della musica e il talento dei due cantanti Lavinia Bini e Filippo Morace, hanno preparato il terreno per l’intermezzo seguente, Serpilla e Bacocco di Giuseppe Maria Orlandini che a partire dalla sua creazione nel 1715 venne ripreso in numerose città italiane ed europee, e di cui si conoscono numerosi testimoni manoscritti e a stampa. La base della edizione critica utilizzata per la sua esecuzione a Lugo è la versione veneziana della fine del 1718, e già dall’ascolto della sua breve introduzione strumentale si coglie un maggiore articolazione della condotta strumentale e la varietà di accenti delle parti vocali nelle quali i toni giocosi si alternano a quelli patetici. La sua trama, come evidenziato dal sottotitolo “il marito giocatore e la moglie bacchettona” è basata sul conflitto coniugale a causa del vizio del gioco e delle conseguenze della dissipazione del patrimonio e della dote, con la moglie che chiede il divorzio e il marito travestito da giudice che finge di accordarlo chiedendole in cambio di concedersi, e il conseguente ribaltamento dei ruoli, con la consorte che implora di essere perdonata.
Tutto questo ha permesso al regista Walter Le Moli di far muovere i personaggi tra il palco e la platea vivacizzando la vicenda e avvicinando al pubblico i due bravi interpreti Daniele Pini e ancora Filippo Morace. Grazie all’ottima concertazione di Alessandrini e alla qualità dei musicisti di Concerto Italiano i due intermezzi hanno divertito e avvinto il pubblico del Teatro Rossini che si è dimostrato affezionato a questa giovane manifestazione.
Nell’anno delle celebrazione del 450° anniversario della nascita di Claudio Monteverdi la giusta conclusione di un festival che di fatto è il Festival di Concerto Italiano, in tutte le sue ramificazioni, è stata quella di un concerto dedicato ai suoi otto libri di madrigali. Seguendo l’ordine cronologico della loro pubblicazione e scegliendone uno da ciascun volume sia nella prima che nella seconda parte, il direttore di Concerto Italiano quale profondo conoscitore dell’opera del compositore ha compilato la sua personale antologia, mostrando la varietà e la complessità della sua scrittura musicale esaltata dalle voci di Monica Piccinini, Anna Simboli, Andrés Montilla-Acurero, Gianluca Ferrarini, Raffaele Giordani, e Matteo Bellotto, accompagnati dall’arciliuto di Ugo Di Giovanni, dalla tiorba di Craig Marchitelli e dal cembalo di Alessandrini. Nella parte iniziale del concerto intitolato Dalla prima alla seconda pratica, quest’ultima è stata messa in evidenza dal vertiginoso “Anima mia perdona / Che se tu sei il cor mio” del Quarto Libro, dai tratti lancinanti e quasi strazianti nella sottolineatura degli ultimi due versi di Giovan Battista Guarini, e dallo struggente “Dolcissimo usignolo” dall’Ottavo Libro che nel suo andamento prevalentemente omoritmico mostra la continuità della concezione monteverdiana che aderisce sempre alla natura del testo per esaltarne in modo straordinario il suo potenziale con grande varietà di soluzioni. Così anche nella seconda parte il capolavoro “Ch’io non t’ami” del Terzo Libro sembrava già prefigurare la svolta operata in modo più sistematico dal Quarto Libro in poi, più che manifesta nel “Lamento della Ninfa” dell’Ottavo Libro. Un ammaliante e toccante percorso tra luci e ombre e abissi e vette degli affetti, e tra le gemme monteverdiane fatte di versi che ora fluttuano e ora si immergono nel flusso delle voci, scolpendo incisivamente immagini e concetti. Parole che danzano, che accarezzano, ma che frequentemente si inabissano, riemergono e sembrano torcersi squassate dagli spasmi del dolore delle ferite d’amore. Il bis è sembrato congegnato per lenirle, con un air di Michel de Saint Lambert “Tout l'univers obéit à l'Amour” sui versi di Jean de La Fontaine. Con questo solenne invito ad amare, “amate, amate, tutto il resto è nulla”, si è concluso il festival Purtimiro, che nel 2018 dovrebbe raddoppiare il numero dei suoi concerti.
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