Tony Allen e il mito dell'afrobeat
Il batterista a Torino per il Jazz Re:Found
In un’epoca di mitizzazione del passato e di contrazione del circuito del live, ci sono musicisti che suonano in giro perché sono dei nomi: nomi capaci di evocare passate grandezze, esperienze della storia della musica talmente leggendarie e distanti, nella percezione del pubblico, da essere automaticamente dotate di valore (e di potenziale commerciale). Tony Allen è una di queste figure: classe 1940, divo world prima della world music e maestro dell’afrobeat, batterista di chi dell’afrobeat fu il re, Allen è entrato nel mito per la lunga parte della sua carriera a fianco di Sua Maestà Fela Kuti (ma Allen ha suonato e registrato con molti musicisti, da King Sunny Adé a Manu Dibango). E se la fama di Allen si era un po’ appannata negli ultimi decenni, ci ha pensato Damon Albarn a portare il suo inconfondibile drumming a una nuova generazione di pubblico, accogliendolo in formazione nell’eccellente progetto The Good, The Bad and the Queen (e nel più dimenticabile Rocket Juice & the Moon). La pubblicazione nel 2014 dell’autobiografia Tony Allen: Master Drummer of Afrobeat, ha definitivamente sigillato il mito di Allen come “inventore dell’Afrobeat”, etichetta che si porta dietro e in cui viene normalmente "rinchiuso" quando suona in giro. Da quel momento in poi, il nome di Tony Allen è diventato uno dei nomi scritti in grosso sul cartellone dei festival, suonando spesso anche in Italia. Era sempre mancato, però, da Torino: una mancanza che il festival Jazz Re:Found ha meritoriamente colmato, nella sua ricerca di musiche “di confine” fra il jazz e… qualcos’altro: l’elettronica, il rock, il soul, il rap... Per la cronaca, Allen ha approfittato del passaggio torinese per visitare ai migranti dell’ex-MOI, le palazzine dell’ex villaggio olimpico occupate dai migranti, sorta di “Giungla” italiana. Lo ha fatto su invito della sua agenzia italiana, Musicalista, e della sua fondatrice Magali Berardo: un bel gesto politico e simbolico, che spicca soprattutto perché molto raro, di questi tempi.
Quanto è “nome”, allora, Tony Allen, e quanto è – ancora – “musicista”? Nonostante la sala da concerto (il centrale Cap 10100, in una splendida location in riva al Po) ce la metta tutta per far suonare male chiunque (alta e stretta, è semplicemente inadeguata a questo tipo di concerti), Allen suona (ancora) benissimo, a dispetto di ogni etichetta semplicistica.
Certo: è un (vecchio) marpione, che sa che cosa il pubblico desidera e che glielo concede ad ampie mani. Ma è anche uno di quei pochi batteristi al mondo che si riconosce da quattro battute: una scansione sul charleston, un passaggio sul rullante (i due pezzi centrali del suo set), per un tocco e un modo di portare il tempo assolutamente unici. “Afrobeat”, appunto: ci sono – nel mondo delle drum machine e delle più moderne workstation digitali – infiniti preset che cercano di imitare questo modo di suonare. Allen lo fa ancora, dal vivo, con un'energia e una voglia invidiabili.
Intorno alla sua batteria, "l'inventore dell'afrobeat" si circonda di una squadra di comprimari di qualità. Spiccano soprattutto la chitarra di Indy Dibongue, che aggiorna con grande originalità timbrica le aspettative connesse con la chitarra in un set del genere, e il basso dello specialista ivoriano César Anot. Buona la sezione fiati (con la tromba di Valentin Pellet e il sax di Yann Jankielewicz, anche al synth), per quanto molto penalizzata nel suono generale. Ben vengano i vecchi miti allora, se hanno ancora qualcosa da dire: in Allen, oggi, non si ritrova nostalgia, ma solo grande voglia di suonare.
Interpreti: Tony Allen: Batteria e voce ; César Anot: basso; Indy Dibongue: chitarra ; Jean Phi Dary: tastiere ; Valentin Pellet: Tromba; Yann Jankielewicz: Sassofono e synth; Patrick Gorce: Percussioni.
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