Un gran Carnevale

Il regista Terry Gilliam dai Monthy Python ad un fantasmagorico Benvenuto Cellini

Recensione
classica
Teatro dell'Opera di Roma Roma
Hector Berlioz
24 Marzo 2016
Il [i]Benvenuto Cellini[/i] fu rappresentato con la dimessa definizione di opera in due atti all'Académie Royale de Musique nel 1838, cioè all'Opéra di Parigi nel periodo in cui vi dominava il grand opéra: però Berlioz rifiutò le convenzioni imposte dai successi di Meyebeer & C. e, se ne accettò qualcuna, la stravolse dall'interno. Per esempio, scrisse anch'egli un grande quadro di danza, ma non lo fece per vellicare i sensi del pubblico, anzi fu uno schiaffo al gusto della buona società del'epoca. Infatti quest'opera fu un fiasco, non poteva essere altrimenti. Anche Terry Gilliam fa in modo di scandalizzare - appena un po' - anche il pubblico del 2016, che però non fischia come nel 1838 ma applaude. Durante l'ouverture compare una grande scritta con un gioco di parole osceno sull'erezione del Perseo, il capolavoro di Cellini, tanto per farci subito capire che un genio non è un sempre un essere sublime ma può essere brutto e cattivo. Infatti Cellini, quando entra in scena, sembra un graffitaro alla Basquiat. Ma la Roma del 1532 non è come Greenwich trent'anni fa. È peggio. È un buio carcere di Piranesi, rischiarato solo da alcune lame di luce e dall'insegna al neon di un bar molto alcolico. È pericolosa, girano molti lame, ma ci si diverte anche, quando è carnevale, come nel quadro più famoso dell'opera. Questo carnevale romano è in realtà universale, vi si mescola anche la festa messicana del giorno dei morti con i suoi teschi e i suoi scheletri. Ma questo è solo l'inizio. Il culmine è quando il mite e malinconico Pierrot diventa un osceno sileno con attributi fallici mostruosi, mentre intorno a lui ruotano altri personaggi, ripugnanti o divertenti, ma sempre inquietanti. Tutto è fantasmagorico e spettacolare, molto fedele dunque allo spirito di Berlioz. Ma nel secondo atto, quando l'opera diventa statica e avrebbe maggior bisogno di qualche aiuto da parte del regista, Gilliam non ha più molte idee. Nemmeno la fusione del Perseo - spettacolare e ricca di suspence, perché fino all'ultimo non si sa se sarà un trionfo o un fallimento - gli suggerisce qualcosa di speciale. Il cast è complessivamente valido ma non esaltante. Il protagonista John Osborne ha aspetto ribaldo ma voce soltanto corretta. La giovane Mariangela Sicilia ha sia una voce angelica che un caratterino pepato. Il Fieramosca di Alessandro Luongo è un po' flebile a petto della ricca orchestra. Sonoro invece il papa di Marco Spotti. Ottimi Nicola Ulivieri (Balducci) e Varduhi Abrahamyan (Ascanio). Roberto Abbado ha dominato perfettamente la complessa partitura, non lasciandosi trascinare eccessivamente dalle invenzioni più eclatanti dell'orchestrazione di Berlioz e dando molta attenzione invece alle pennellate più delicate ma non meno geniali.

Note: Nuovo allestimento in coproduzione con English National Opera di Londra e De Nationale Opera & Ballet di Amsterdam

Interpreti: John Osborne, Nicola Ulivieri, Alessandro Luogo, Marco Spotti, Matteo Falcier, Graziano Dallavalle, Andrea Giovannini, Vladimir Reutov, Mariangela Sicilia, Varduhi Abrahamyan

Regia: Terry Gilliam e coregia di Leah Hausman, ripresa da Natascha Metherell

Scene: Terry Gilliam, Aaron Marsden

Costumi: Katrina Lindsay e video di Finn Ross

Coreografo: Leah Hausman

Orchestra: Orchestra del Teatro dell'Opera di Roma

Direttore: Roberto Abbado

Coro: Coro del Teatro dell'Opera di Roma

Maestro Coro: Roberto Gabbiani

Luci: Paul Constable

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