Parma tra mainstream e "vero jazz"
Marcus Roberts e Dianne Reeves per il nuovo jazz festival parmigiano
Recensione
jazz
Il neonato Parma Jazz Festival ha offerto una proposta dedicata alla musica di origine afroamericana, che si aggiunge ad anni di frequentazione che i parmigiani hanno maturato con l’ormai consolidato Parma Jazz Frontiere. Al di là dei confronti e dei proclami – c’è dell’incauto provincialismo in un direttore artistico (Antonio Ciacca) che dice di voler portare in Italia il "vero jazz" – il programma proposto ha offerto appuntamenti di alterna qualità, tra i quali scegliamo di parlare di due concerti tra loro molto differenti.
Il primo è quello che ha visto protagonista Dianne Reeves: sostenuta con efficacia dai suoi musicisti, la sua proposta musicale ha spaziato dal jazz mainstream più raffinato a brani che rievocavano le radici blues di una musica che la Reeves porta evidentemente nel sangue, riuscendo a trasferirla dall’anima alla voce, e quindi al pubblico.
Il secondo ha visto protagonista Marcus Roberts e il suo trio. Il pianismo di Roberts si è fatto apprezzare, oltre che per la consapevolezza stilistica e il raffinato controllo timbrico, anche per l’originalità che ha saputo infondere nelle interpretazioni di brani che hanno omaggiato figure che andavano da Thelonious Monk a John Coltrane, fino allo sguardo a ritroso rivolto all’opera di Jelly Roll Morton. Escursioni nelle diverse stagioni della storia del jazz che questo artista ha condiviso con la presenza trascinante della batteria di Jason Marsalis e del basso di Rodney Jordan, in un susseguirsi di dialoghi solidi ma misurati, seguendo il filo conduttore di una compostezza la quale, più che atteggiamento estetico aprioristico o indulgente, appariva come scelta interpretativa coerente. Un carattere, quello dei due artisti, capace di coinvolgere un pubblico non numerosissimo, almeno nelle due prime serate.
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