Davis per pochi
Il compositore e pianista alla Casa del Jazz di Roma in solo
Recensione
jazz
Mancava da venti anni Anthony Davis a Roma. Nel frattempo il pianista e compositore americano è diventato uno dei più popolari ed eseguito operisti statunitensi: dal successo di "X", l’opera per Malcolm X, Davis ha inanellato una lunga serie di commissioni, con tanto di repliche e riprese. Nel frattempo, pur non avendo abbandonato il jazz, Davis ha praticamente smesso di fare dischi con i suoi gruppi. Ed è un peccato, perché come jazzista ha prodotto tra gli anni Settanta e Ottanta molte cose originali, soprattutto con il flautista James Newton, in cui si fondevano raffinatezza compositiva, ricerca timbrica ed una grande energia esecutiva. La curiosità era perciò tanta, anche per verificare il singolare percorso di un jazzista d’avanguardia che diventa operista classico di successo. L’aspettativa è andata un po’ delusa. Davis ha proposto una nuova suite in quattro movimenti ispirata a lettere di Lincoln, che erano proiettate su uno schermo; poi ha proseguito con il suo classico “Of Blues and Dreams”, un inopinato “Evidence” di Monk e un paio di bis. Dal concerto sono emersi due problemi: Davis è un pianista personale, ma non ha abbastanza colori e nuances da sostenere un piano solo. Si sente che ragiona da compositore, l’esecuzione pianistica è una riduzione un po’ povera di qualcosa pensato per altre occasioni. Tuttavia spesso emerge una vena romantica, con risonanze, ribattuti, accordi ricchi, respiro profondo, che dando corpo e colore alla musica. In gruppo, come si è sentito al festival di Botticino, la sua musica sprigiona tutt’altra complessità.
Un nota di “colore”: alla Casa del Jazz c’erano 21 spettatori, di cui sette giornalisti (tra cui il sottoscritto). Davvero corta la memoria dei romani.
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