Jurowski, che bella Dama di picche

A Bologna La dama di picche: grande Jurowski, donne di sfarzo e la regia di Richard Jones oltre i limiti del gusto

Recensione
classica
Teatro Comunale Bologna
Piotr Ilic Cajkovskij
20 Gennaio 2002
Quanto è bella, La dama di picche, opera veloce, esattissima, partitura straordinaria di tinte e spessore, drammaturgia pressoché perfetta. I fratelli Cajkovskij, compositore e librettista, al Comunale di Bologna s'erano omaggiati per l'ultima volta vent'anni fa: fu una Dama di picche firmata da Vladimir Delman, un maestro che a quei tempi a Bologna stava nei panni non del tutto suoi del direttore-stabile-di-un-ente-lirico-italiano. Ed era dura, allora, a far quel mestiere. Anche per chi, magari, in quel ruolo ci fosse nato. Fu una Dama di picche degna di ricordi, ma questa, che càpita in un altro momento mica facile della vita della Fondazione bolognese (annullamento della prima, scioperi e tensioni tra orchestra e sovrintendenza), la si ricorderà anche di più. La si ricorderà per qualche ragione specifica, se non per ognuno dei valori di questa coproduzione con la Welsh National Opera. Il primo motivo di merito è nella lettura di Vladimir Jurowski, primo direttore ospite al Comunale da un paio d'anni. Jurowski fa una Dama di picche di sontuosa bellezza. Se la sua Notte di maggio, l'anno scorso, non aveva convinto chiunque (ma era anche parziale demerito di un'opera assai meno compatta della Dama), questo Cajkovskij esce invece magistrale, e con lui un'orchestra, fresca d'agitazione, che quest'anno non s'era mai ascoltata tanto convincente. Jurowski fa tutto come si deve, fa il sinfonista ma lascia cantare, restituisce in ogni apgina gli "affetti" cajkovskiani, guida tutto e di più, eppure quasi non t'accordi di lui, e in teatro è una qualità dei più grandi. La seconda ragione di merito è per buona parte nel cast, le donne su tutti, con la Lisa di Martina Serafin e la Contessa di Nina Romanova impeccabili vocalmente e capaci di rendere per mobilità interpretativa e qualità attoriale quei tratti pre psicanalitici ma così poco manierati, così poco viennesi, che i Cajkovskij profondono nell'opera. Anche Hermann, ovvero Ian Storey, non è privo di qualità e ha voce bella, ma non la controlla con continuità e in scena ci sta purtroppo da tenore, a ginocchio duro e busto in avanti e non è affatto un bel vedere. Bene in generale le parti più o meno minori (tra gli altri, Putilin, Voinarovskij, Meliga, Schalaeva). La terza ragione principale di merito è nelle scene (costumi più generici, senza colpo ferire) di John MacFarlane: la regia di Richard Jones sposta l'azione dall'età di Caterina la Grande alla belle époque, e MacFarlane lavora con soluzioni molto fresche, mobili, intuitive per disegnare gli spazi di interni ossessivi, di stanze che virano da un bianco virginale nel secondo quadro fin verso il nero mortuario alla Ronconi del letto visto dall'alto nell'attacco del terz'atto. La prima ragione di demerito è nella regia di Richard Jones, firma che si diverte a scandalizzare il Nord Europa e che qui non scandalizza nessuno, ma inquieta, piuttosto, per certe soluzioni oltre la soglia del vaudeville e, talora, del ridicolo. Che cosa diavolo facessero le masse di passaggio come uscite da un Eurostar e destiante a incasinare la scena nel primo e nel penultimo quadro, sarebbe bello che qualcuno lo spiegasse; perché mai, in una scena anche ben gestita sul piano teatrale come la seconda, ci fosse bisogno che Lisa s'arrampicasse su un pianoforte verticale per raggiungere lui affacciato all'abbaino è altro fattore degno di perplessità, e in generale certe uscite di gusto fuor di registro finiscono per inquinare, pesantemente, idee che per altri versi non mancano. Applausi per tutti: il regista non c'era.

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