In viaggio nella Ruhr con Johan
La Ruhrtriennale 2017 apre con Barbara Hannigan in Debussy e Satie, Herreweghe e il “Vespro” di Monteverdi e un’installazione del Rimini Protokoll
Qui gli eventi si celebrano nelle grandi cattedrali ormai sconsacrate dell’industria pesante. Non è una stravaganza pensare che il silenzio che abita quelle imponenti architetture inviti al raccoglimento spirituale. Non è una stravaganza rendere l’inevitabile omaggio a Claudio Monteverdi in uno di quegli spazi, uno dei più belli, al frutto più maturo della sua riflessione spirituale. Nell’immensa sala delle macchine della ex miniera Zollern di Dortmund, Philippe Herreweghe e il suo Collegium Vocale Ghent trionfano con un “Vespro della Beata Vegine” di intensa spiritualità e di spettacolare bellezza. Un solo appunto, comunque veniale: la rinuncia all’ardita spazialità del suono monteverdiano, laddove invece l’architettura della sala avrebbe consentito sperimentazioni sonore più coraggiose. Straordinario l’apporto dei solisti, tutti di ammirevole omogeneità e impeccabile rigore stilistico (e fra questi si dovranno citare almeno i due formidabili tenori Reinoud Van Mechelen e Samuel Boden e le soprano Dorothee Mields e Barbora Kabátková). Fondamentale anche il contributo dell’agile compagine strumentale limpidamente diretta da Herreweghe. Un successo siglato da standing ovation e oltre dieci minuti di applausi.
Per il Collegium Vocale Ghent e Herreweghe si trattava di un ritorno dopo il Bach nel non riuscitissimo “Accattone” del 2015. Altro ritorno era anche quello del polacco Krzysztof Warlikowski, dopo il Proust della “Recherche” del 2015. Nel 2017 torna alla Francia: il Debussy di “Pelléas” allestito nella grande navata della Jahrhunderthalle di Bochum, il cuore del festival da sempre. Dice il regista che allestire l’opera di Debussy in uno spazio industriale è come operare una dissezione da laboratorio del testo in un ambiente più alieno possibile: è un contrasto violento fra l’intimità delle scene e la vastità degli spazi. L’abituale scenografa Malgorzata Szecniak non chiude lo spazio, ma definisce tre ambienti: sul lato sinistro un bar fatto di specchi addossato a un pilastro e qualche tavolino lì accanto (e sulla parete esterna, un’infilata di lavabi come quelli di uno spogliatoio); sul lato destro una lunga parete a boiserie con numerose porte e un grande tavolo; sulla parete di fondo, sovrastato da una grande vetrata, un doppio scalone dalle volute déco che abbracciano l’orchestra. La luce naturale filtra dai vetri del tetto così come naturale è la chiave scelta dal regista per il suo “Pelléas”. Non sono tutte uguali, in fondo, le storie d’amore? C’è un lui, Golaud, barba e ciuffo neri molto hipster, che entra in un bar e vede lei, Mélisande, allungata sul bancone del bar, in pieno naufragio esistenziale. Lui le parla ma lei non ascolta e ripete “Non toccarmi”. “Qualcuno ti ha fatto del male?” le chiede lui. “Oh, sì. Tutti. Tutti” gli risponde lei. Come l’inizio di un film. Quel film che si gira davanti agli occhi degli spettatori e che viene proiettato in bianco e nero sul grande schermo che sta sopra l’orchestra. Lui la sposa e la porta nella sua vecchia casa, asfittica, in quella famiglia aristocratica, così viscontianamente decadente, che tradisce la malattia in ciò che tace. Il figlio Yniold ha il caschetto biondo come (un caso?) quello di zio Pelléas, fragilissimo e inquieto e sempre in procinto di partire ma incapace di lasciare quella casa. Più che un’ordinaria storia di tradimento, Warlikowski racconta piuttosto la storia di tre naufraghi esistenziali, di cui i dialoghi sospesi e indefiniti di Maeterlinck descrivono perfettamente lo smarrimento. “Forse è l’ultima volta che ti vedo ... devo andarmene per sempre”, le dice un Pelléas, raramente così fragile. “Perché dici sempre che te ne vai?” le risponde lei in quell’ultimo fatale incontro interrotto dal gesto violento di Golaud. Tramontata l’era degli allestimenti astrattamente estetizzanti ispirati all’estenuato simbolismo del testo, Warlikowski rende espliciti la decadenza, la povertà e quell’incombente desiderio di morte che attraversa il testo. Le tre apparizioni nella grotta qui sono tre clochard, che dormono in sacchi a pelo sotto ai lavabi. Se Pelléas parla a Mélisande di due colombe che lasciano il nido spaventate dai loro giochi innocenti sulla tv del bar scorrono le immagini dell’attacco spaventoso “Gli uccelli” di Hitchcock. Se Yniold sente il pianto dei montoni, entrano dei pastori con le cerate che grondano sangue animale (e anche le immagini sullo schermo lasciano poco spazio all’immaginazione). La violenza, sublimata in Debussy e Maeterlinck, qui si vede e si tocca. E si sente anche, grazie alla direzione di Sylvain Cambreling, che dai Bochumer Symphoniker ottiene un suono levigatissimo ma denso e corposo, in piena sintonia con un “Pelléas” drammatico più che sognante.
Per uno spettacolo che ha molto di cinematografico poter contare su bravi attori è essenziale. Warlikowski ne trova due di straordinari in Leigh Melrose (Golaud) e Barbara Hannigan (Mélisande), uno più debole sul piano attoriale ma risolto pienamente su quello vocale in Phillip Addis (Pelléas), due comprimari di grande spessore anche vocale in Franz-Josef Selig (Arkel) e Sara Mingardo (Geneviève) affiancati da Caio Monteiro (medico e pastore) e dal giovanissimo Moritz Bouchard (Yniold) in prestito dalla formidabile fucina del coro di voci bianche della Chorakademie di Dortmund. Di Barbara Hannigan qui colpisce soprattutto l’intelligenza della grande inteprete: una Mélisande alla deriva deve esserlo anche, corentemente, in ciò che la voce esprime e qui la sua voce è soffiata, appena percettibile a tratti, non bella come deve essere quella di chi vive un intimo tomento.
Ancora la Hannigan è la protagonista di una serata “fra amici”. La scena è la stessa del “Pelléas” ma stavolta il pubblico prende posto sul parquet della scena attorno a un pianoforte verso una delle porte della grande parete a boiserie. Sul grande schermo panoramico sopra la tribuna vuota dell’orchestra è proiettato un volto, quello di Reinbert de Leeuw, e due date: 469 a.C. e 399 a.C. Da dietro la tribuna entra poprio lui, de Leeuw, emaciato, curvo, passo stanco. Si siede al pianoforte, si toglie le scarpe, si infila delle pantofole, beve un sorso di vino rosso dal bicchiere appoggiato accanto al leggio e mette le mani sulla tastiera. Lo schermo mostra l’immagine delle sue mani mentre suona gli accordi scritti da Erik Satie per “Uspud”, balletto cristiano su script dell’amico Contamine de Latour del 1892. Tre atti assolutamente poco ballettistici ma totalmente “à la manière de” Satie, si affaccia Barbara Hannigan per una performance muta nella quale entra di spalle, cade al suolo e si rialza lentamente nell’immaginaria spiaggia abbandonata del primo atto, rientra solo alla fine del secondo quadro nella casa di Uspud e quindi in cima alla montagna con la croce completamente vestita di nero e occhiali scuri come una vedova non troppo allegra pronta al lutto per la morte di “Socrate”, protagonista dell’altro pezzo di Satie, che segue senza soluzione di continuità. Lei intona al microfono le parole di Alcibiade nel “Ritratto di Socrate”, passeggia fra il pubblico leggera come una farfalla lungo “Le rive di Ilisso” e scompare per rientrare con il capo velato di nero per “La morte di Socrate”. Il tono è sempre leggero, velato di una elegiaca mestizia come quella di una ballata triste. La Hannigan, come de Leeuw, segue le coreografie pensate da Warlikowski per questa serata fra amici, già proposta a Varsavia nel suo Nowy Teatr. La sua voce suona fragile, ma la musica di Satie non chiede grandi voci ma piuttosto un’interprete in grado di farla volare leggera come una piuma come sa fare la Hannigan. Il viaggio nella Ruhr continua fino alla fine di settembre.
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