Il Monteverdi vivo di Gardiner
Con il progetto Monteverdi 450 il direttore inglese porta le tre opere del compositore al Teatro la Fenice di Venezia
Cura filologica a parte, la trilogia monteverdiana tenuta a battesimo da Sir John Eliot Gardiner, barocchista (e monteverdiano) insigne, si ricorderà a lungo per la straordinaria freschezza e immediatezza di linguaggio scenico, che ha saputo trasmettere al numeroso pubblico convenuto al Teatro La Fenice per non perdere l’appuntamento di punta nell’anno del quattrocentocinquantenario della nascita del compositore.
Sotto la dicitura di Monteverdi 450 il direttore britannico ha riunito i fedeli e affiatatissimi English Baroque Soloists e il Monteverdi Choir oltre a una pattuglia di cantanti, che in Orfeo si presenta in scena nella sua completezza, come le vecchie compagnie di comici di giro che attraversavano l’Europa presentando nelle piazze di città e villaggi le storie della commedia dell’arte. E questo Monteverdi 450 in fondo è un po’ questo, avendo inaugurato da Venezia, città monteverdiana per eccellenza, un lungo itinerario che, dopo il breve rodaggio a Bristol e Barcellona lo scorso maggio, nei prossimi mesi toccherà Salisburgo, Edinburgo, Lucerna, Berlino, Breslavia, Parigi, e infine attraverserà l’Atlantico per le ultime due tappe di Chicago e New York in ottobre inoltrato. Delle compagnie di giro quella vista alla Fenice ha anche la natura metamorfica dei suoi interpreti, sempre gli stessi, che cambiano abito e personalità ogni sera per dare corpo e voce ai diversi personaggi della favola in musica dell’Orfeo, della tragedia (omerica) di lieto fine del Ritorno di Ulisse in patria e del dramma per musica dell’Incoronazione di Poppea. Vedere una dopo l’altra le tre superstiti del corpus di composizioni per il teatro di Claudio Monteverdi è davvero un’occasione speciale e preziosa con cui Gardiner ha voluto rendere omaggio a un compagno del suo lungo percorso artistico.
Quello di Monteverdi è un universo di invenzioni, di scoperte, di intuizioni che mostra e apre il plurisecolare percorso del teatro in musica. Non c’è forse tutto quello che verrà, ma c’è già moltissimo in quelle folgorante caleidoscopio di personaggi e mondi rappresentati sulla scena. Scena che Gardiner ha voluto consacrare quasi interamente alla musica e privarla di qualsiasi artificiosità teatrale: un semplice fondale nero, qualche gradino sul fondo scena, l’orchestra sul davanti divisa in due ali per lasciare spazio all’azione affidata interamente alla capacità affabulatoria degli interpreti vocali e all’agile coro. Talvolta l’azione va oltre la scena e invade la platea della Fenice. L’ Orfeo si apre con la fanfara che si fa sentire già dal foyer e che, in processione, attraversa la sala intonando la toccata aprendo così con una cerimonia festosa una festa che celebra Monteverdi in tre giornate. La sala è anche il luogo nel quale gli amanti si inseguono quando il clima festoso non viene interrompere dell’incedere dolente della Messaggiera velata fra gli spettatori prima dell’annuncio della morte di Euridice. È anche il luogo delle incursioni dell’osceno Iro nell’Ulisse ma anche del lento incedere di Seneca, che va verso il suicidio imposto da Nerone.
Quello visto alla Fenice è un teatro fatto di nient’altro che di gesti e di movimenti. Il paesaggio bucolico di Orfeo è tutto nelle danze dei pastori, la tenzone dei Proci è risolta con la stessa Penelope che si fa arco tendendo il braccio verso l’alto e resistendo alla loro sfrontatezza per cedere finalmente all’abbraccio del consorte, il rincorrersi dei giovani Nerone e Poppea e la dolcezza dei gesti racconta la sensualità di quella relazione. Ci dividono quattro secoli eppure quella semplicità, quei gesti minimi ci fanno sentire più vicini che mai a quel mondo, che è sempre e ancora il nostro mondo. Gardiner e Elsa Rooke firmano insieme una regia che è fatta della studiatissima semplicità e bellezza di quei gesti, che parlano una lingua che è ancora vicinissima alla nostra sensibilità. Aggiungono poco le luci, un po’ schematiche, un po’ didascaliche, di Rick Fisher: gli dei inondano l’elaborato fregio del palcoscenico della Fenice di luce dorata, una luce azzurrina disegna la notte e rossa è la regalità. Pochi effetti, anche nei costumi di Patricia Hofstede, non belli, da trovarobato nel loro eclettismo, ma sempre funzionali al carattere che interpretano.
La narrazione è dunque tutta sulle spalle o, meglio, sui corpi dei venti “comici”, tutti davvero bravissimi nel passare dalla ribalta dei protagonisti alla seconda fila e servire comunque le ragioni del teatro dell’universo monteverdiano. Riconoscere i meriti dei singoli è come spezzare un tutto che dà frutti preziosi. E tuttavia andrà citato Krystian Adam bravissimo nel far sentire la ferita di Orfeo per la perdita di Euridice e quindi la gioia pudica del figlio che trova finalmente quel padre mai davvero conosciuto in Ulisse. E Furio Zanasi, che regala a Ulisse la sua pacata maturità di uomo prima che di interprete, dopo essere stato un Apollo così insolitamente lunare innanzia Orfeo e prima di diventare il soldato di Nerone che annuncia compassionevole il ferale verdetto a Seneca.
E come tacere di Lucile Richardot, di cui colpisce la capacità di rendere credibili l’intensa mestizia di quella messaggera velata, la pervicacia di Penelope nel restar fedele al suo uomo e la verve comica della “parvenue” Arnalta. Ma si dovrà anche dire della freschezza giovanile di Hana Blaziková trasfusa a Euridice ma anche di quella nota malizia che traspare nella sua seducente Poppea. E come ignorare la forte presenza di Gianluca Buratto, che passa con disinvoltura dalla ferina natura di Caronte ammansito dall’arpa barocca della seducente Gwyneth Wentink, alla proterva aggressività del procio maggiore Antinoo e alla nobile compostezza di Seneca. E poi Kangmin Justin Kim che si prende la scena con un adolescenziale e capriccioso Nerone, e Carlo Vistoli che emerge soprattutto con il suo Ottone amante ferito, e Silvia Frigato che è un freschissimo Amore e infine Marianna Pizzolato che infonde alla moglie ripudiata Ottavia accenti di elevata nobiltà. Andrà detto che tutti, anche quelli che qui non abbiamo citato, riescono a dare un senso compiuto a quell’idea di recitar cantando attraverso una cura attentissima della parola scenica (grande lavoro del language coach che è Matteo Dalle Fratte).
E infine resta da dire di lui, di Sir John Eliot Gardiner, grande artefice di questa splendida festa della musica, meticoloso cerimoniere che, e si sente davvero, ha curato ogni dettaglio. Il taglio interpretativo è forse meno solenne e più agile di altri suoi Monteverdi del passato. Il rigore e la pulizia filologica sono ancora e sempre gli stessi ma il rilievo che dà alla parola attraverso il canto è forse anche maggiore che nel passato. Sul palcoscenico della Fenice lui era lì, seduto proprio al centro e all’azione partecipava accompagnando ogni singola frase della sua piccola e agilissima orchestra e di tutti i cantanti e ogni loro respiro con un gesto che era quasi una carezza. Il suo Monteverdi non è sopra a un piedistallo di marmo ma vive ancora fra noi. Intanto, nella Chiesa dei Frari, sulla tomba di Claudio Monteverdi c’è sempre una rosa fresca.
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