Padri e figli

Il Festival Rossini di Bad Wildbad con opere di Rossini, Bellini e Balducci

Recensione
classica
“Rossini in Wildbad” festeggiava quest’anno i 25 anni di attività. Lo ha fatto con un festa di ricordi e soprattutto di voci giovani nel minuscolo Teatro reale delle Terme, ormai completamente recuperato e restituito a una piena attività, ma soprattutto con una generosa offerta di vere prelibatezze per gli estimatori del belcanto, merce piuttosto rara in Germania, dove il peso di una tradizione legata particolarmente alla drammaturgia condiziona pesantemente le scelte vocali. E lo ha fatto con una qualità musicale di tutto rispetto, tenuto conto dei mezzi relativamente scarsi impiegati nell’organizzazione.

Accanto alla riproposizione di “Bianca e Gernando” di Bellini e alla riscoperta dell’opera da salotto “Il Conte di Marsico” di Giuseppe Balducci, a farla da padrone è stato ovviamente il nume tutelare del festival, Gioachino Rossini, del quale sono state presentate tre opere – “Demetrio e Polibio”, “Sigismondo” e “Le Comte Ory”– oltre a una significativa presenza di sue musiche nel recital del tenore Maxim Mironov consacrato a Giovan Battista Rubini. Il tenore lombardo fu voce ideale per innumerevoli ruoli rossiniani e primo interprete di numerose opere belliniane da “Bianca e Gernando” (presentata anche al festival) al Gualtiero del “Pirata” a Elvino nella “Sonnambula” e Arturo Talbo nei “Puritani” per non citare Donizetti e Pacini. Il tenore russo, in smagliante forma vocale, ha proposto un accattivante florilegio di quei ruoli, dai più noti – “Pietra di paragone” di Rossini (“Oh come il fosco”), “Il pirata” (“Tu vedrai la sventurata”), “Anna Bolena” (“Vivi tu”) e “I briganti” di Mercadante (“Ermano, ove sei tu”) – a delle vere e proprie gemme dimenticate, come la grande aria di Licida dalla “Niobe” di Pacini o il curioso “Falstaff” di Michael William Balfe, assai meno noto di quelli di Verdi e di Salieri. Il recital si concludeva con una pirotecnica aria di Idreno “La speranza più soave” dalla rossiniana “Semiramide”, risolta con grande agio vocale nonostante la complessità tecnica, prima di un festeggiatissimo bis con l’orgia alcolica ancora dai “Briganti”, ruolo sostenuto dallo stesso Mironov a Bad Wildbad qualche stagione fa.

Fra gli storici ruoli creati da Rubini figura anche quello di Gernando nella belliniana “Bianca e Fernando”. Opera seconda dopo “Adelson e Salvini”, si tratta di un lavoro per molti versi già maturo del compositore catanese che veniva riproposto con grande successo nella prima versione napoletana in concerto alla Trinkhalle da un trio di protagonisti di grande peso – lo stesso Mironov (Gernando), Silvia della Benetta (Bianca) e Vittorio Prato (Filippo) – guidati dalla sperimentata perizia di Antonino Fogliani. Nessuna love story contrastata nel soggetto dell’opera ma una cupa storia di figli divisi dal padre, creduto morto ma tenuto prigioniero, per brama di potere di Filippo. Cupa la vicenda, cupa la musica ad alta densità tragica, ma non priva di quei momenti estatici di pura bellezza del Bellini più tardo, come quella lunga introduzione di arpa e corno inglese all’aria di Bianca “Sorgi o padre” del secondo atto o il finale nella prigione sotterranea del Duca di Agrigento preceduto da un movimento di spessore sinfonico che evoca le tenebre del carcere di Florestano.

Ancora padri e figli in conflitto anche nel “Demetrio e Polibio”, opera primissima di Gioachino Rossini su un libretto di Vincenzina Viganò Mombelli, presentata in una versione scenica marcatamente minimalista di Nicola Berloffa al Teatro reale delle Terme. Anche qui l’agnizione la fa da padrone ma sono i padri (il partico Polibio e il siriano Demetrio) a condurre il gioco anche a costo di minacciare le vite dei figli, i quali però si prendono la rivincita nel finale (i figli uccideranno i padri? Berloffa sembra solo suggerirlo). Se il libretto non è privo di qualche ingenuità, anche in quest’opera del quattordicenne Rossini risalta una consapevolezza teatrale già spiccata e modi che anticipano quelli della splendida maturità del compositore nell’elaborata trama strumentale, nel trattamento vocale già segnato da un virtuosismo spinto e in un finale primo che ha già il respiro delle opere maggiori. Uno dei pregi maggiori della produzione di Bad Wildbad era di prendere l’opera rossiniana sul serio e di affidarla a un quartetto di bravi interpreti fra i quali si distingueva il contralto Victoria Yarovaya (Siveno), già ammirata come Falliero nella scorsa edizione, perfetta combinazione di timbro accattivante e tecnica acrobatica che faceva brillare la cavatina di “Pien di contento in seno” e soprattutto “Perdon ti chiedo, o padre” del secondo atto. Buone anche le prove di Sofia Mchedlishvili (Lisinga), César Arrieta (Eumene) e Luca Dall’Amico (Polibio). Sul podio Luciano Acocella dirigeva con energia e eleganza.

Dal primo al penultimo Rossini per “Le Comte Ory” nella sala della Trinkhalle in una versione semiscenica a cura di Nicola Berloffa alle prese con un eterogeneo cast di allievi dell’Accademia BelCanto diretta da Raúl Giménez. Trionfo di clergyman e veli da suora sulla scena popolata solo di numerose sedie. Poco più di un saggio di scuola ma realizzato con un certo gusto e soprattutto in funzione di offrire una vetrina a un cast giovane non privo di qualche sicuro talento. Si imponevano particolarmente la classe scenica e vocale del baritono Roberto Maietta (Raimbaud), il migliore in campo, ma non sfiguravano Karina Repova (Isolier) per eleganza di fraseggio e bellezza di timbro e Sara Blach (Adèle) per la padronanza della scena e la tecnica imperiosa che compensa mezzi vocali non possenti. Meno maturi invece Gheorghe Vlad (Ory), discontinuo e nasaleggiante, e soprattutto Shi Zong (Gouverneur), molto approssimativo nell’emissione e nel fraseggio. Anche questa produzione poteva contare sull’esperienza di Luciano Acocella, che dal podio teneva a bada tutti senza sacrificare un passo spigliato e la leggerezza che la commedia impone.

Completava il tris rossiniano il “Sigismondo”, opera di non frequente esecuzione (anche a Bad Wildbad mancava dal 1995), segnata inesorabilmente dall’insuccesso della prima del 1814 al Teatro La Fenice. È noto che Rossini stesso non fosse particolarmente soddisfatto del risultato, che in effetti raramente vola al di sopra della convenzione. Aiuta anche poco un libretto che, nonostante lo spunto boccacciano (la novella Griselda, centesima e ultima del “Decamerone”), risulta spesso convoluto e piuttosto farraginoso. Così come farraginoso risultava lo spettacolo allestito da Jochen Schönleber sulla scena della Trinkhalle: una selva di superfici specchianti che, più che rinviare all’immagine riflessa e all’illusione in cui vive il folle sovrano protagonista, risultava piuttosto di intralcio al movimento di un’opera costruita comunque su dimensioni piuttosto importanti ma soprattutto aiutava poco a sbrogliare l’intricata trama. Sul piano strettamente musicale, nonostante l’accurata concertazione di Antonino Fogliani, la produzione doveva fare i conti con più di una debolezza nel cast vocale. La protagonista “en travesti” Margarita Gritskova ha sicuramente buoni mezzi ma risultava piuttosto discontinua e comunque poco intonata alla follia del personaggio. Corrette ma senza colpi d’ala le prove di Maria Aleida (Aldimira), forse troppo impensierita dai voli pindarici del ruolo risolti comunque con classe, e di Kenneth Tarver (Ladislao). Funzionali i giovani Paula Sánchez-Valverde (Anagilda) e César Arrieta (Radoski), mentre una maggiore scioltezza in scena e un maggior controllo vocale avrebbero giovato a Marcell Balkonyi (Ulderico).

Una vera rarità l’ultima delle produzioni del cartellone di Bad Wildbad: “Il Conte di Marsico”, opera composta per il salotto napoletano della marchesa Matilde della Sonora Capece Minutolo da Giuseppe Balducci, di cui nelle scorse edizioni del festival sono state presentate “Boabdil, re di Granata” nel 2007 e “Il noce di Benevento” nel 2011. Ridotta all’osso, la vicenda tratta di una contesa per una proprietà immobiliare (chissà se il fratello di Balducci, Anacleto, di professione giurista, non abbia messo del suo vissuto personale). L’oggetto della contesa è il castello di Marsico e contendenti sono la Contessa Agnese di Sanseverino e il nipote Ruggero. Per salvare l’integrità della proprietà Agnese tenta di imporre alla figlia Chiara di sposare il cugino Ruggero ma i due son già promessi, a Gualtiero Filangeri la prima e a Teodora d’Aquino (da tutti creduta Lucia, la figlia della serva) il secondo. L’intrigo si scioglie, le coppie naturali si ricompongono e anche la proprietà rimarrà integra. Composta nel 1839 per le tre figlie della Capece Minutolo – Paolina, Adelaide e Clotilde – e tre amiche di famiglia, tutte e sei allieve di Balducci, l’operina inanella più che delle vere e proprie arie una serie di romanze da salotto e qualche pezzo di insieme (c’è anche un coretto di sapore vagamente patriottico se non davvero risorgimentale “O sole d’Italia”) con l’accompagnamento di due pianoforti. Lo spettacolino visto al Teatro reale delle Terme arrivava dal Teatro di Sarrià, quartiere di Barcellona, in collaborazione con l’Opera di Firenze, ed era anche realizzato da Jochen Schönleber. Con un certo gusto parodico, nell’immaginario Castello di Marsico si combatteva a colpi di scopa con dei secchi in testa a far da elmo e stendibiancheria come scudi. Anche qui un cast giovane e tutto femminile, con molte voci già incontrate nelle altre produzioni del festival. Si facevano notare soprattutto Karina Repova (Gualtiero) ancora una volta per l’eleganza di fraseggio, la sensibile Marina Viotti (Teodora alias Lucia) e la briosa Mae Hayashi (Agnese). Davide Bertorello, Federico Piccolo e Achille Lampo, anche direttore, assicuravano al pianoforte un efficace accompagnamento musicale.

In conclusione andrà citata l’instancabile presenza dell’orchestra coinvolta in tutti gli appuntamenti importanti del festival, i Virtuosi Brunenses, complesso più che apprezzabile per la qualità musicale dei suoi elementi, così come il coro Camerata Bach di Poznan, sparuto ma agile e soprattutto adattabile alle poliedriche occasioni musicali.

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