Opere-non-opere
Le prime proposte del Fast Forward Festival di Giorgio Battistelli: Bussotti, Goebbels, van der Aa
Recensione
classica
Il Fast Forward Festival, ideato e prodotto dal Teatro dell'Opera di Roma con la direzione artistica di Giorgio Battistelli, ha presentato le prime tre "opere", oltre a un balletto e ad alcuni concerti dalla forte componente teatrale, come Vie de famille di Jean-Pierre Drouet, o gestuale, come le composizioni per percussioni di John Cage, Maurico Kagel, Lucia Ronchetti e Francesco Filidei, o pittorica, come Inevitable Music #5 di Sébastian Roux, che traduce in musica i Wall Drawings di Sol Lewitt.
Soltanto per la mancanza di un termine più idoneo si possono definire "opere" i tre lavori teatrali visti in questi primi giorni del festival, ma un unico termine idoneo per tutti questi tipi di teatro non esiste e non potrà esistere mai, poiché ogni spettacolo musicale contemporaneo è un caso a sé, un unicum che avrebbe bisogno di una definizione ad hoc. Un'eccezione potrebbe essere lo spettacolo finale del festival, Proserpina di Wofgang Rhim, che non è del tutto improprio definire opera, ma di questo si parlerà in una prossima occasione.
Qui parleremo dei primi tre spettacoli, non però nell'ordine in cui sono stati rappresentati a Roma ma secondo la data di composizione, iniziando dunque da La Passion selon Sade di Sylvano Bussotti, un lavoro ormai storico, che fece scalpore e scandalo nel 1966, quando apparve prima a Palermo e poi, nel giro di pochi mesi, in mezzo mondo. Oggi la componente sadica non scandalizza più, ma sembra roba per educande rispetto a quel che si vede in giro, mentre a lasciare ancora spiazzato lo spettatore è la concezione teatral-musicale di questo "mystère de chambre avec tableaux vivants". Tale titolo offre una serie di agganci per capire quel che aveva in mente l'autore. Il "mystère" era un genere di teatro religioso medioevale e associarlo al nome maledetto di Sade era chiaramente una provocazione, che Bussotti non poteva lasciarsi sfuggire. Ma probabilmente il suo riferimento principale era Le Martyre de Saint Sébastien, il "mistero" di D'Annunzio e Debussy del 1911, in cui Bussotti trovò varie consonanze con la propria estetica, quali la sensualità, il preziosismo, l'estetismo. Da D'Annunzio e Debussy vennero a Bussotti anche suggerimenti più precisi: nel loro "mistero" era una danzatrice, la celebre Ida Rubinstein, a impersonare l'efebico San Sebastiano, similmente in quello di Bussotti il protagonisti era un efebico ballerino, Rocco, compagno di vita e ispiratore di molte composizioni di Sylvano. Né tra i molteplici riferimenti di questa Passion si possono passare sotto silenzio Marat/Sade di Peter Weiss e il Living Theather. Insomma, quest'opera incrocia vari eventi cruciali del teatro del Novecento.
Il titolo fa riferimento anche ai "tableaux vivants" ed è effettivamente ciò che si vede, non tanto perché i personaggi siano immobili (ma a tratti lo sono) quanto perché vengono colti e isolati alcuni quadri, che evidentemente hanno colpito in modo particolare l'autore, senza che minimamente si delinei un'azione teatrale tradizionale. Inseparabili da questa personalissima e unica idea teatrale sono le musiche, che allora erano difficilmente comprensibili e accettabili, ma che oggi appaiono momenti d'incantata bellezza sonora, spesso aggraziate e malinconiche, talvolta ironiche. Il risultato è uno spettacolo per certi versi inafferrabile ma dalle infinite suggestioni, che certamente non lascia indifferenti.
L'ha diretto come meglio non si potrebbe Marcello Panni, che ne diresse giovanissimo alcune esecuzioni alla presenza del compositore stesso e che oggi è uno dei pochi a poter ancora insegnare agli ottimi giovani strumentisti dell'Ensemble Novecento (che si stanno formando ai corsi di perfezionamento dell'Accademia di Santa Cecilia) come vada interpretata la "notazione grafica" di Bussotti, che lascia agli esecutori ampia libertà di realizzazione, ma allo stesso tempo impone delle regole ben codificate. Alda Caiello, cantante con pochi rivali nell'interpretazione della musica contemporanea, e l'attrice Verdiana Costanzo erano Justine-Juliette. Il danzatore Enrico Petracchi ha assolto benissimo la responsabilità di riprendere un ruolo pensato per Rocco. Il regista Luca Bargagna, la scenografa Giada Abendi e la costumista Chicca Ruocco e io light designer Marco Alba (tutti e quattro del Progetto "Fabrica Young Artist " del Teatro dell'Opera) hanno vinto la sfida di ricreare uno spettacolo nato come qualcosa di unico e irripetibile. Moltissimi gli applausi, che non erano un omaggio di cortesia all'ottantacinquenne compositore ma esprimevano sincera ammirazione per un'opera legata a un momento storico ben preciso ma ancora assolutamente vitale.
Di venti anni fa è Schwarz auf Weiss di Heiner Goebbels, presentato dall'Opera in collaborazione col Teatro di Roma e col sostegno del Goethe-Institut, nell'allestimento della prima assoluta del 1996 a Francoforte. Il compositore in questo caso è anche il regista, inevitabilmente, perché suonare e recitare sono qui due momenti inseparabili, anzi sono la stessa cosa, realizzata in modo perfetto dall'Ensemble Modern di Francoforte. Il testo è costituito da Shadow, un racconto di Edgar Allan Poe, in cui la voce di un uomo vissuto in un'epoca remota parla dal mondo delle ombre a noi viventi: era letto dai musicisti in scena e dalla voce registrata di Heiner Müller, il grande drammaturgo e regista scomparso nel 1995, alla cui memoria questo lavoro è dedicato. Si annuncia anche una conversazione radiofonica di Müller stesso, ma a "0 db", quindi totalmente inaudibile: potrebbe sembrare un'ironia, ma è lo straziante riconoscimento che, quando una persona è morta, la tecnologia moderna può darci l'illusione, ma solo l'illusione, di riascoltarne la voce. Venivano letti inoltre brevi testi di Eliot e di Blanchot, anch'essi riferibili all'impossibilità della comunicazione tra i vivi e i morti e tra i viventi stessi.
Venendo alla parte precipuamente musicale, la partitura – perché si tratta proprio di una partitura, minuziosamente scritta, sebbene si possa avere a tratti l'impressione di una libera improvvisazione – inizia con suoni caotici, poi lentamente si comincia ad intravedere una parvenza di ordine, ma gli strumenti riescono ad emettere soltanto monconi di poche note, in una babele di stili diversi: è il simbolo musicale dell'afasia e dell'impossibilità di comunicare, così come lo sono il duetto tra il flauto e la teiera che sibila e il musicista che dà fuoco a dei fogli di carta, uno dopo l'altro, e li guarda salire volteggiando nell'aria, per poi spegnersi e ricadere in pochi istanti. E quando una musicista giapponese trae infine una melodia dalle corde di un koto, gli ottoni la circondano e soffocano quella tenue voce.
Per Goebbels Schwarz auf Weiss è una "parabola dell'atto di scrivere". Noi diremmo piuttosto una parabola sulla solitudine di chi scrive, sullo svanire immediato della voce di chi scrive, sull'impossibilità stessa di scrivere. È anche un documento del senso insuperabile di perdita e di assenza che lascia la morte di una persona. Con alcuni momenti caoticamente allegri ma con una profonda base di disperazione. Indubbiamente uno degli esempi di teatro musicale di maggior impatto di questi anni.
La terza "opera" era Blank Out - rappresentata per la prima volta appena due mesi fa - in cui il quarantacinquenne Michel van der Aa usa tecniche innovative per intersecare e far dialogare un'interprete dal vivo (la brava Miah Persson) con le immagini e le voci di un film 3D. Non è un vezzo tecnologico fine a se stesso, ma è un mezzo (forse il solo mezzo possibile) per tentare di esplorare il confine labile fra realtà, ricordi e incubi, in cui sono coinvolti una madre e un figlio. La madre racconta come abbia visto il figlio di sette anni annegare, senza riuscire ad intervenire per salvarlo, ma progressivamente ai ricordi della madre si sovrappongono quelli del figlio ormai adulto e gradualmente scopriamo che lui si è salvato, mentre è la madre ad essere annegata. Ci sono momenti molto forti e coinvolgenti (bellissimo il testo della scrittrice sudafricana Ingrid Jonker, soprattutto quando racconta il legame simbiotico tra madre e figlio) ma non diremmo che il suggestivo ma arduo traguardo che il compositore si è prefisso sia stato pienamente raggiunto. Forse la tecnologia lo ha ingannato.
Soltanto per la mancanza di un termine più idoneo si possono definire "opere" i tre lavori teatrali visti in questi primi giorni del festival, ma un unico termine idoneo per tutti questi tipi di teatro non esiste e non potrà esistere mai, poiché ogni spettacolo musicale contemporaneo è un caso a sé, un unicum che avrebbe bisogno di una definizione ad hoc. Un'eccezione potrebbe essere lo spettacolo finale del festival, Proserpina di Wofgang Rhim, che non è del tutto improprio definire opera, ma di questo si parlerà in una prossima occasione.
Qui parleremo dei primi tre spettacoli, non però nell'ordine in cui sono stati rappresentati a Roma ma secondo la data di composizione, iniziando dunque da La Passion selon Sade di Sylvano Bussotti, un lavoro ormai storico, che fece scalpore e scandalo nel 1966, quando apparve prima a Palermo e poi, nel giro di pochi mesi, in mezzo mondo. Oggi la componente sadica non scandalizza più, ma sembra roba per educande rispetto a quel che si vede in giro, mentre a lasciare ancora spiazzato lo spettatore è la concezione teatral-musicale di questo "mystère de chambre avec tableaux vivants". Tale titolo offre una serie di agganci per capire quel che aveva in mente l'autore. Il "mystère" era un genere di teatro religioso medioevale e associarlo al nome maledetto di Sade era chiaramente una provocazione, che Bussotti non poteva lasciarsi sfuggire. Ma probabilmente il suo riferimento principale era Le Martyre de Saint Sébastien, il "mistero" di D'Annunzio e Debussy del 1911, in cui Bussotti trovò varie consonanze con la propria estetica, quali la sensualità, il preziosismo, l'estetismo. Da D'Annunzio e Debussy vennero a Bussotti anche suggerimenti più precisi: nel loro "mistero" era una danzatrice, la celebre Ida Rubinstein, a impersonare l'efebico San Sebastiano, similmente in quello di Bussotti il protagonisti era un efebico ballerino, Rocco, compagno di vita e ispiratore di molte composizioni di Sylvano. Né tra i molteplici riferimenti di questa Passion si possono passare sotto silenzio Marat/Sade di Peter Weiss e il Living Theather. Insomma, quest'opera incrocia vari eventi cruciali del teatro del Novecento.
Il titolo fa riferimento anche ai "tableaux vivants" ed è effettivamente ciò che si vede, non tanto perché i personaggi siano immobili (ma a tratti lo sono) quanto perché vengono colti e isolati alcuni quadri, che evidentemente hanno colpito in modo particolare l'autore, senza che minimamente si delinei un'azione teatrale tradizionale. Inseparabili da questa personalissima e unica idea teatrale sono le musiche, che allora erano difficilmente comprensibili e accettabili, ma che oggi appaiono momenti d'incantata bellezza sonora, spesso aggraziate e malinconiche, talvolta ironiche. Il risultato è uno spettacolo per certi versi inafferrabile ma dalle infinite suggestioni, che certamente non lascia indifferenti.
L'ha diretto come meglio non si potrebbe Marcello Panni, che ne diresse giovanissimo alcune esecuzioni alla presenza del compositore stesso e che oggi è uno dei pochi a poter ancora insegnare agli ottimi giovani strumentisti dell'Ensemble Novecento (che si stanno formando ai corsi di perfezionamento dell'Accademia di Santa Cecilia) come vada interpretata la "notazione grafica" di Bussotti, che lascia agli esecutori ampia libertà di realizzazione, ma allo stesso tempo impone delle regole ben codificate. Alda Caiello, cantante con pochi rivali nell'interpretazione della musica contemporanea, e l'attrice Verdiana Costanzo erano Justine-Juliette. Il danzatore Enrico Petracchi ha assolto benissimo la responsabilità di riprendere un ruolo pensato per Rocco. Il regista Luca Bargagna, la scenografa Giada Abendi e la costumista Chicca Ruocco e io light designer Marco Alba (tutti e quattro del Progetto "Fabrica Young Artist " del Teatro dell'Opera) hanno vinto la sfida di ricreare uno spettacolo nato come qualcosa di unico e irripetibile. Moltissimi gli applausi, che non erano un omaggio di cortesia all'ottantacinquenne compositore ma esprimevano sincera ammirazione per un'opera legata a un momento storico ben preciso ma ancora assolutamente vitale.
Di venti anni fa è Schwarz auf Weiss di Heiner Goebbels, presentato dall'Opera in collaborazione col Teatro di Roma e col sostegno del Goethe-Institut, nell'allestimento della prima assoluta del 1996 a Francoforte. Il compositore in questo caso è anche il regista, inevitabilmente, perché suonare e recitare sono qui due momenti inseparabili, anzi sono la stessa cosa, realizzata in modo perfetto dall'Ensemble Modern di Francoforte. Il testo è costituito da Shadow, un racconto di Edgar Allan Poe, in cui la voce di un uomo vissuto in un'epoca remota parla dal mondo delle ombre a noi viventi: era letto dai musicisti in scena e dalla voce registrata di Heiner Müller, il grande drammaturgo e regista scomparso nel 1995, alla cui memoria questo lavoro è dedicato. Si annuncia anche una conversazione radiofonica di Müller stesso, ma a "0 db", quindi totalmente inaudibile: potrebbe sembrare un'ironia, ma è lo straziante riconoscimento che, quando una persona è morta, la tecnologia moderna può darci l'illusione, ma solo l'illusione, di riascoltarne la voce. Venivano letti inoltre brevi testi di Eliot e di Blanchot, anch'essi riferibili all'impossibilità della comunicazione tra i vivi e i morti e tra i viventi stessi.
Venendo alla parte precipuamente musicale, la partitura – perché si tratta proprio di una partitura, minuziosamente scritta, sebbene si possa avere a tratti l'impressione di una libera improvvisazione – inizia con suoni caotici, poi lentamente si comincia ad intravedere una parvenza di ordine, ma gli strumenti riescono ad emettere soltanto monconi di poche note, in una babele di stili diversi: è il simbolo musicale dell'afasia e dell'impossibilità di comunicare, così come lo sono il duetto tra il flauto e la teiera che sibila e il musicista che dà fuoco a dei fogli di carta, uno dopo l'altro, e li guarda salire volteggiando nell'aria, per poi spegnersi e ricadere in pochi istanti. E quando una musicista giapponese trae infine una melodia dalle corde di un koto, gli ottoni la circondano e soffocano quella tenue voce.
Per Goebbels Schwarz auf Weiss è una "parabola dell'atto di scrivere". Noi diremmo piuttosto una parabola sulla solitudine di chi scrive, sullo svanire immediato della voce di chi scrive, sull'impossibilità stessa di scrivere. È anche un documento del senso insuperabile di perdita e di assenza che lascia la morte di una persona. Con alcuni momenti caoticamente allegri ma con una profonda base di disperazione. Indubbiamente uno degli esempi di teatro musicale di maggior impatto di questi anni.
La terza "opera" era Blank Out - rappresentata per la prima volta appena due mesi fa - in cui il quarantacinquenne Michel van der Aa usa tecniche innovative per intersecare e far dialogare un'interprete dal vivo (la brava Miah Persson) con le immagini e le voci di un film 3D. Non è un vezzo tecnologico fine a se stesso, ma è un mezzo (forse il solo mezzo possibile) per tentare di esplorare il confine labile fra realtà, ricordi e incubi, in cui sono coinvolti una madre e un figlio. La madre racconta come abbia visto il figlio di sette anni annegare, senza riuscire ad intervenire per salvarlo, ma progressivamente ai ricordi della madre si sovrappongono quelli del figlio ormai adulto e gradualmente scopriamo che lui si è salvato, mentre è la madre ad essere annegata. Ci sono momenti molto forti e coinvolgenti (bellissimo il testo della scrittrice sudafricana Ingrid Jonker, soprattutto quando racconta il legame simbiotico tra madre e figlio) ma non diremmo che il suggestivo ma arduo traguardo che il compositore si è prefisso sia stato pienamente raggiunto. Forse la tecnologia lo ha ingannato.
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