Parma: un Teatro cinquestelle
Pizzarotti e le nomine al Regio
Recensione
classica
Volano gli stracci tra i pentastellati e a farne le spese è il simbolo della cultura di una città. La vicenda è ormai nota: il primo cittadino di Parma Federico Pizzarotti, primo sindaco di una significativa città italiana espressione del Movimento 5 Stelle, è indagato per abuso d'ufficio, assieme a Laura Ferraris, assessore alla Cultura, per la nomina di Anna Maria Meo a direttore generale del Teatro Regio e di Barbara Minghetti a consulente per sviluppo e progetti speciali. Indagati per il medesimo reato anche altri tre membri del cda della Fondazione Teatro Regio all'epoca delle nomine: Giuseppe Albenzio, Silvio Grimaldeschi e Marco Alberto Valenti.
La cosa ha innescato un meccanismo di dichiarazioni e controdichiarazioni che hanno portato alla sospensione di Pizzarotti dal Movimento – diversamente da quanto accaduto nei confronti del sindaco di Livorno Filippo Nogarin – esacerbando il conflitto interno al Movimento stesso che ormai da qualche tempo contrappone il sindaco di Parma e alcuni esponenti dei Cinque Stelle, sia a livello regionale sia nazionale, primo fra tutti Beppe Grillo che, sostiene Pizzarotti, «non sento più ormai da un paio d’anni.»
Queste diatribe politico-partitiche (o, per i puristi, politico-movimentarie), saranno pure considerate ormai “naturali” – specie in periodi di elezioni amministrative particolarmente delicate come quelle che stiamo attraversando per Roma e Milano – ma hanno fatto perdere di vista il cuore del problema, vale a dire la legittimazione di un atteggiamento se non proprio disinvolto perlomeno arbitrario nei confronti di un bene culturale come il Teatro Regio di Parma. Già appena eletto, nel 2012, Pizzarotti aveva agito diversamente da quanto previsto dal nuovo statuto del teatro – e dal relativo bando – definito dal commissario straordinario del Comune di Parma Mario Ciclosi (fino al maggio di quell’anno impegnato a ricomporre i pezzi di una città minata dagli scandali dell’amministrazione Vignali), nominando direttamente Carlo Fontana e Paolo Arcà alla guida del teatro. Dopo le loro dimissioni, maturate solo due anni dopo, il Comune di Parma e la Fondazione del teatro avevano aperto una “ricognizione esplorativa”, costituendo una commissione ad hoc presieduta dal sovrintendente della Fenice di Venezia Cristiano Chiarot per la valutazione delle candidature. A gennaio del 2015 il teatro aveva fatto sapere che la procedura si era chiusa senza esito per poi affidare, circa una settimana dopo, l'incarico di direttore alla Meo. La decisione aveva sollevato forti polemiche bipartisan considerato anche che tra le sette candidature scelte dalla commissione vi erano professionisti riconosciuti (compreso Carmelo di Gennaro, ex-direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Madrid e ora General Manager di TopArtEspaña, che ha pubblicamente espresso le sue perplessità sull’accaduto) e gli inquirenti ora indagano – anche a seguito di un esposto presentato in Procura dal senatore del PD parmigiano Giorgio Pagliari – su presunte interferenze nella procedura di selezione dei candidati alla guida della principale istituzione culturale della città.
Questo tracciato tortuoso ha esposto il Teatro Regio – reso fragile anche da un impegnativo percorso di risanamento dei conti – ad una precarietà gestionale che, se da un lato è stata arginata della solida competenza delle diverse figure professionali impegnate a lavorare quotidianamente all’interno della Fondazione, dall’altro ha inevitabilmente castrato una prospettiva di medio periodo, facendo mancare una programmazione fondata su una vera e propria politica culturale. Ed è questo il punto: la politica – e le polemiche su questa vicenda lo dimostrano ancora una volta – mette sempre sé stessa al centro del confronto, facendo passare in secondo piano ciò che invece dovrebbe essere l’oggetto principale della propria attività e dell’impiego delle proprie energie: la gestione virtuosa e auspicabilmente competente della res publica, cultura e musica comprese.
Queste diatribe politico-partitiche (o, per i puristi, politico-movimentarie), saranno pure considerate ormai “naturali” – specie in periodi di elezioni amministrative particolarmente delicate come quelle che stiamo attraversando per Roma e Milano – ma hanno fatto perdere di vista il cuore del problema, vale a dire la legittimazione di un atteggiamento se non proprio disinvolto perlomeno arbitrario nei confronti di un bene culturale come il Teatro Regio di Parma. Già appena eletto, nel 2012, Pizzarotti aveva agito diversamente da quanto previsto dal nuovo statuto del teatro – e dal relativo bando – definito dal commissario straordinario del Comune di Parma Mario Ciclosi (fino al maggio di quell’anno impegnato a ricomporre i pezzi di una città minata dagli scandali dell’amministrazione Vignali), nominando direttamente Carlo Fontana e Paolo Arcà alla guida del teatro. Dopo le loro dimissioni, maturate solo due anni dopo, il Comune di Parma e la Fondazione del teatro avevano aperto una “ricognizione esplorativa”, costituendo una commissione ad hoc presieduta dal sovrintendente della Fenice di Venezia Cristiano Chiarot per la valutazione delle candidature. A gennaio del 2015 il teatro aveva fatto sapere che la procedura si era chiusa senza esito per poi affidare, circa una settimana dopo, l'incarico di direttore alla Meo. La decisione aveva sollevato forti polemiche bipartisan considerato anche che tra le sette candidature scelte dalla commissione vi erano professionisti riconosciuti (compreso Carmelo di Gennaro, ex-direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Madrid e ora General Manager di TopArtEspaña, che ha pubblicamente espresso le sue perplessità sull’accaduto) e gli inquirenti ora indagano – anche a seguito di un esposto presentato in Procura dal senatore del PD parmigiano Giorgio Pagliari – su presunte interferenze nella procedura di selezione dei candidati alla guida della principale istituzione culturale della città.
Questo tracciato tortuoso ha esposto il Teatro Regio – reso fragile anche da un impegnativo percorso di risanamento dei conti – ad una precarietà gestionale che, se da un lato è stata arginata della solida competenza delle diverse figure professionali impegnate a lavorare quotidianamente all’interno della Fondazione, dall’altro ha inevitabilmente castrato una prospettiva di medio periodo, facendo mancare una programmazione fondata su una vera e propria politica culturale. Ed è questo il punto: la politica – e le polemiche su questa vicenda lo dimostrano ancora una volta – mette sempre sé stessa al centro del confronto, facendo passare in secondo piano ciò che invece dovrebbe essere l’oggetto principale della propria attività e dell’impiego delle proprie energie: la gestione virtuosa e auspicabilmente competente della res publica, cultura e musica comprese.
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