A Lyon la musica della Shoah

Da Tabachnik a Ullmann

Recensione
classica
Dopo "La Juive" di Halévy - un episodio inventato della persecuzione degli ebrei nel tardo medioevo - il festival dell'Opéra National di Lione ha presentato due opere che in modi e per vie diverse riportano a fatti tremendamente reali e molto più vicini nel tempo. Michel Tabachnik, con un percorso inverso a quello di molti altri - Bernstein a Boulez, per citare i più noti - che hanno rarefatto la loro attività di compositori per dedicarsi alla direzione d'orchestra, si dedica da qualche anno soprattutto alla composizione ed ha ora scritto la sua prima opera, "Benjamin, dernière nuit", su un testo di Régis Debray, già sessantottino, rivoluzionario e (forse) guerrigliero, adesso filosofo. Stupisce un po' vederlo ora nelle vesti di un librettista che non disdegna le rime, ma sa fare anche questo: il suo testo è molto particolare ma "funziona" benissimo, come se l'avesse scritto un librettista consumato. Vi si narrano le ultime ore di Walter Benjamin, che, bloccato in Spagna mentre cercava di imbarcarsi per l'America per sfuggire alla Shoah, si suicidò. Si tratta di una serie di scene piuttosto corte e diversificate, che permettono al compositore di scrivere una serie di pezzi musicali molto vari, "come in un'opera di Mozart e all'opposto di un'opera di Wagner", come scrive Tabachnik stesso. La sua musica è atonale ma ingloba anche la tonalità e cita compositori del passato, canzoni da cabaret, antichi canti religiosi ebraici, marce militari: tutto per aderire molto da vicino al testo, che ricostruisce gli avvenimenti delle ultime ore della vita di Benjamin ma soprattutto inventa con la fantasia quel che passò allora per la sua mente, in cui si affollano i ricordi dei suoi incontri con altri protagonisti di quegli anni, da Sartre a Brecht, ognuno dei quali parla la propria lingua, tedesco, francese, inglese.

Una struttura teatrale e musicale molto articolata ma chiarissima e molto efficace anche sotto l'aspetto drammatico, sebbene si tratti di una specie di oratorio, in cui si assiste ad apparizioni più che ad azioni. Lo stesso suicidio del protagonista, che conclude l'opera, non è certo sfruttato come un colpo di teatro per un finale melodrammatico. Un'opera breve, che offre sensazioni e riflessioni intense. Eseguita benissimo dal direttore Bernhard Kontarsky e da un gruppo di ottimi interpreti, tra cui i due che impersonavano Banjamin, un cantante (Jean-Noël Briend) e un attore (Sava Lolov). E poi Karoly Szemerédy (Max Horkheimer), Michaela Kustekova (Asja Lacis), Goele De Raedt (una cantante di cabaret), Michaela Selinger (Hannah Arendt) e tutti gli altri. Fondamentale per la riuscita teatrale di quest'opera non particolarmente teatrale è stata la raffinatissima regia di John Fulljames, con le scene di Michael Levine e le luci di James Farncombe.

Il terzo spettacolo del festival era "Der Kaiser von Atlantis", la piccola opera che Viktor Ullmann scrisse nel 1943 nel campo di concentramento di Terezin. Da qualche anno la si rappresenta con una certa frequenza e va chiarito subito che questo non è soltanto un doveroso tributo al compositore, che fu poi ucciso ad Auschwitz, e che questa è effettivamente un'opera di grande valore. Il testo di Peter Kien, che oscilla tra espressionismo e simbolismo, è di difficile comprensione, perfino astruso, ma sicuramente terribile. In breve: l'Imperatore scatena la guerra di tutti contro tutti, ma la Morte entra in sciopero e accetta di riprendere il suo lavoro solo se l'Imperatore sarà il primo a morire, mentre tutti la implorano come unico sollievo dal fardello della vita. Con pochi mezzi Ullmann ottiene un grande ventaglio di colori musicali e di situazioni drammatiche, con momenti di grande forza. In questo caso la messa in scena di Richard Brunel non è sembrata particolarmente indovinata, mentre era ottima l'esecuzione musicale diretta da Vincent Renaud, con Piotr Micinski (la Moret) e i giovani cantanti dello Studio de l'Opéra de Lyon.

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