Beethovenfest II
C'è anche il jazz
Recensione
classica
Le giornate di chiusura del Beethovenfest 2015 propongono un trittico affidato a Jos van Immerseel e alla sua orchestra Anima Eterna Brugge, ovvero l’incontro con un mondo popolato da strumenti storici, antichi, pronti però a restituire un suono che, soprattutto al pubblico della Beethovenhalle, può risultare nuovo se non insolito. Tre concerti con una buona presenza musicale del compositore di Bonn, quella significativa di Haydn e Schubert, quindi i nomi meno noti di Berwald e Onslow, come dire un orizzonte sinfonico che oltrepassa i territori più familiari ed esplora i piacevoli dintorni. Il programma della prima serata si è aperto con l’ultima Sinfonia di Haydn, con una sonorità risultata subito decisamente moderna grazie al suono di questi strumenti per i quali la musica fu concepita. L’equilibrio tra le sezioni soprattutto non è quello che si è soliti ascoltare con le moderne formazioni orchestrali, van Immerseel guida i musicisti come un regista dalla presenza discreta, le istruzioni evidentemente sono state già date durante le prove. Il Concerto in mi maggiore per due pianoforti di Mendelssohn non sarà certo un’opera grazie alla quale il compositore tedesco verrà ricordato dai posteri, tuttavia permette la presenza sul palco di due strumenti a tastiere storici, affidati alla maestria dello stesso van Immerseel e di Claire Chevallier. Una scelta di programma che penalizza un po’ la serata, tant’è che che diverse persone del pubblico abbandonano la sala durante la pausa, malgrado il delizioso bis brahmsiano a quattro mani offerto dai due solisti. L’Egmont di Beethoven e la “Syphonie singulière” di Berwald a più di uno spettatore non sono sembrati motivo sufficiente per restare, eppure la serata è proseguita a un livello forse ancor più elevato che nella prima parte. Gli archi possono finalmente suonare tutti seduti – non occorre stare in piedi per emergere dietro i pianoforti adoperati nella prima parte – e l’insieme pare funzionare egregiamente nei suoi delicati equilibri beethoveniani e soprattutto nei trascinanti ritmi offerti dal brano di Berwald, una piacevole sorpresa per chi non conosceva l’autore svedese scomparso nel 1868.
Beethovenfest due e anche tre. Nike Wagner, direttrice artistica del Festival che quest’anno firma la sua prima manifestazione concepita dall’inizio alla fine, ha espresso un chiaro desiderio di allargare l’orizzonte sia verso il settore della danza, sia affiancando al repertorio classico quello legato al mondo del jazz. Anche qui – sottolinea la Wagner – siamo ormai in presenza di veri e proprio ‘classici’, ma soprattutto la componente di improvvisazione presente in questa musica si riallaccia direttamente con una pratica che al tempo di Beethoven era fondamentale e alla quale egli stesso era intimamente legato come pianista. La curiosità per l’esperimento è grande e così si fa presto a sostituire il secondo appuntamento col gruppo di Immerseel – due ‘ottave’ in programma, quella di Ludwig e quella di Schubert, in realtà “La Grande” in Italia è più conosciuta come Settima – e a correre a Siegburg, facilmente raggiungibile da Bonn con un tram, per ascoltare Jan Garbarek e il suo gruppo. Settant'anni Immerseel, due in meno il sassofonista norvegese, l’età del pubblico non muta molto rispetto alla Beethovenhalle, fa sorridere il parziale cambio di abbigliamento, giubbotti di pelle e jeans a volontà, ma anche qualcuno vestito di tutto punto, forse è un segno di rispetto verso l’illustre concittadino cui il Festival – siamo pur sempre al suo interno – è dedicato. C’era poco da dubitare che potesse essere una serata entusiasmante, il mondo musicale di Garbarek è coinvolgente, arduo in realtà definirlo jazz o altro, è semplicemente il suo. E gli esecutori con cui si presenta sono tutti di altissimo livello, Yuri Daniel al basso è travolgente, mentre il percussionista indiano Trilok Gurtu proprio nell’ultima parte del concerto si è lanciato in un assolo funambolico con tanto di schizzi d’acqua provenienti da una pentola opportunamente sollecitata con le bacchette. La scommessa di Nike Wagner è quella di poter accorpare il pubblico di Garbarek con quello della Beethovenhalle, non si può che augurarle di aver successo, ma forse – anche se il paese tedesco può ancora vantare una cultura musicale decisamente di alto livello – il punto centrale per ogni direttore artistico sta diventando quello di trovare e coinvolgere un pubblico più giovane, perché il ricambio prima o poi diventerà improrogabile.
Beethovenfest due e anche tre. Nike Wagner, direttrice artistica del Festival che quest’anno firma la sua prima manifestazione concepita dall’inizio alla fine, ha espresso un chiaro desiderio di allargare l’orizzonte sia verso il settore della danza, sia affiancando al repertorio classico quello legato al mondo del jazz. Anche qui – sottolinea la Wagner – siamo ormai in presenza di veri e proprio ‘classici’, ma soprattutto la componente di improvvisazione presente in questa musica si riallaccia direttamente con una pratica che al tempo di Beethoven era fondamentale e alla quale egli stesso era intimamente legato come pianista. La curiosità per l’esperimento è grande e così si fa presto a sostituire il secondo appuntamento col gruppo di Immerseel – due ‘ottave’ in programma, quella di Ludwig e quella di Schubert, in realtà “La Grande” in Italia è più conosciuta come Settima – e a correre a Siegburg, facilmente raggiungibile da Bonn con un tram, per ascoltare Jan Garbarek e il suo gruppo. Settant'anni Immerseel, due in meno il sassofonista norvegese, l’età del pubblico non muta molto rispetto alla Beethovenhalle, fa sorridere il parziale cambio di abbigliamento, giubbotti di pelle e jeans a volontà, ma anche qualcuno vestito di tutto punto, forse è un segno di rispetto verso l’illustre concittadino cui il Festival – siamo pur sempre al suo interno – è dedicato. C’era poco da dubitare che potesse essere una serata entusiasmante, il mondo musicale di Garbarek è coinvolgente, arduo in realtà definirlo jazz o altro, è semplicemente il suo. E gli esecutori con cui si presenta sono tutti di altissimo livello, Yuri Daniel al basso è travolgente, mentre il percussionista indiano Trilok Gurtu proprio nell’ultima parte del concerto si è lanciato in un assolo funambolico con tanto di schizzi d’acqua provenienti da una pentola opportunamente sollecitata con le bacchette. La scommessa di Nike Wagner è quella di poter accorpare il pubblico di Garbarek con quello della Beethovenhalle, non si può che augurarle di aver successo, ma forse – anche se il paese tedesco può ancora vantare una cultura musicale decisamente di alto livello – il punto centrale per ogni direttore artistico sta diventando quello di trovare e coinvolgere un pubblico più giovane, perché il ricambio prima o poi diventerà improrogabile.
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