Cajkovskij decomposto

Nel warm up di Club to Club, Paolo Dellapiana rilegge la "Patetica" dell'Orchestra Rai

Recensione
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Le cose strane sono cominciate al MAO, il Museo d’Arte Orientale innestato da qualche anno nel Quadrilatero, il quartiere più antico di Torino rifatto a brulicante movida di localini. Lì Teho Teardo ha sonorizzato il percorso di visita, e fatto un paio di cammei live, spalmando la sua “Map Of Enthusiasm” che, dice lui, sarebbe la gratitudine per l’entusiasmo con cui il direttore del Museo, Franco Ricca, lo aveva investito illustrandogli le collezioni lì esposte. Teardo, colonna sonora del nuovo cinema italiano (è appena uscito il suo disco “Music, film. Music” con le sue storie in musica (accompagnato da tipi strambi come Blixa Bargeld e Alexander Balanescu) per le storie in immagini di Paolo Sorrentino, Guido Chiesa e altri registi del nuovo cinema italiano. Teardo lo abbiamo appena sentito con Mario Brunello a spappolare Bach, e con le sue chitarre e i suoi synth andrà chissà fin dove, versatile e flessibile. Nel karesansui (il giardino zen) del MAO, c’erano anche Cesare Mazzonis direttore artistico dell’Orchestra Rai, e l’architetto di suoni Paolo Dellapiana (metà dei Larsen), che poche ore dopo avrebbero fatto qualcosa di nuovo nuovo: un compositore elettronico sul palco di un’orchestra sinfonica, a riscrivere Cajkovskij. Tutte queste cose strane sono pezzi di “Viva Club to Club”, ovvero il warm up del festival diretto da Sergio Ricciardone che da anni eleva a diritto d’ascolto la musica mixata dai deejay per balli di qualità nella notte.
L’Orchestra della Rai faceva la “Quarta” di Mendelssohn, e poi la “Patetica” di Cajkovskij, diretta dal suo direttore principale Juraj Valcuha, slovacco di 35 anni appena salito sul podio dei Berliner a Berlino. Si era annunciato che dopo la fine del concerto Dellapiana sarebbe salito sul palco per far sentire una riscrittura dell’Adagio lamentoso con cui Cajkovskij si era consegnato al suicidio nel 1893. Quasi tutti gli orchestrali se ne sono andati, a fine concerto. Se ne sono andati anche giovani spettatori filoclassici testimoniando che l’anagrafe con le aperture mentali non c’entra. Qualche canuto walking dead strisciando se ne è andato anche mentre dal suo catafalco Dellapiana tirava su al massimo le casse dell’Auditorium (mica si chiama Larsen per niente, il suo duo). Spacca, fischia, distorce nel tempio acustico. Un crescendo di rabbia lugubre. Qualcuno la acchiappa giusta: Dellapiana sta tributando Berio. Ma dov’è finito Cajkovskij? Eccolo: quando quasi tutto è finito, spurga un grappolo di disperazione, il rantolo sinfonico, la bestemmia romantica marcia e malata si pianta nell’ultimo schianto elettronico. Fine: Dellapiana prende due applausi e va.
Un’altra cosa strana è stata provata. Ecco la sensazione di aver vissuto lì per lì un fatto d’arte che prima non c’era, il disagio della sperimentazione. Hurrah. (Senza entusiasmo).


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