L'assoluto non dialoga
John Tilbury e Wadada Leo Smith ad AngelicA
Recensione
oltre
Ci sono musiche che più di altre si prestano all’equivoco di essere situate fuori dalle coordinate spazio-temporali, di vivere in una dimensione assoluta, fuori dalla storia. Naturalmente è un equivoco, perché anche il santo parla la lingua del suo tempo; ancor di più, è parlato dalla lingua del suo tempo. E per un San Francesco che parla agli uccelli, e in effetti non sappiamo in quale idioma, conosciamo invece la lingua di Messiaen, che con il mondo aereo ha intrattenuto una relazione decennale e appassionata. Relazione che lo portato a investigare i modi a trasposizione limitata, teorie ritmiche mutuate dalla musica indiana e dalle acquisizioni di Webern, a esplorare metriche irregolari e a inventare nel campo delle durate il “valore aggiunto”, tra le questioni che hanno pesato e non poco sugli sviluppi della musica nei decenni successivi.
Tra le musiche che si prestano all’equivoco di non avere radici e tradizioni alle spalle ci sono quelle più radicali, se per radicale si intende la volontà di spingere al limite estremo ogni intuizione. In questi territori i confini creati dalla lingua sembrano dissolversi, anche perché la lingua stessa può apparire priva di grammatica, di sintassi, di articolazione, somigliando sempre più all’immersione in un universo sonoro assoluto e individuale. Sembrano dissolversi, ma in effetti non è così.
Wadada Leo Smith è pervenuto, in una ricerca ultra quarantennale, a distillare una musica dove l’indagine sul timbro è al centro dell’attenzione, e il suono dello strumento in sé diviene espressione della dimensione più interiore dell’essere. Naturalmente anche la sua ricerca sta ben radicata dentro una storia, che non può prescindere ad esempio dal Davis più cupo del periodo elettrico. Se non lo conoscete (intendo Wadada) ascoltate Yo Miles!, firmato nel 1998 insieme al chitarrista Henry Kaiser, e troverete l’esplosione funk di qualche decennio fa ricomposta alla luce di quel che nel frattempo la musica afro-americana e non solo ha saputo inventare. Spiritual Dimension, di poco più di un anno fa, è tutto uno spostare più lontano - forse sarebbe meglio dire più dentro - i limiti della ricerca sonora; ma le tracce del passaggio sono chiare, le tappe quasi didascaliche nella loro necessità. Da Creative Music (1971) a oggi il percorso di Wadada Leo Smith è esemplare di una utopia tutta afro-americana. Il suo solo al festival Angelica di Bologna è perfettamente calato in questa idea.
Poi sempre, quella stessa sera accade quello che per decenni è stato inimmaginabile, impensabile, cioè che il trombettista si ritrova sul palco insieme al pianista John Tilbury, protagonista anche lui di una rivoluzione copernicana nell’ambito della ricerca timbrica sul suo strumento. Immenso interprete della musica di Cardew, Feldman e Skempton, ha reinventato il suono del pianoforte alla ricerca di una softness capace di portare l’ascoltatore a una dimensione di accentuata consapevolezza interiore, di ascolto trascendente, di ricerca di un’esperienza di rivelazione attraverso il suono.
Ma l’analogia con la ricerca di Wadada Leo Smith si ferma qui, al bisogno di sprofondare nell’interiorità individuale l’ascolto della musica. Il resto è la storia, fatta di oggetti concreti, materia viva, unico regno dove la libertà dell’uomo musicista possa esprimersi. E la materia che i due trattano proviene da pianeti diversi, da galassie lontane, e il miracolo non avviene. L’alchimia sperata non si realizza; gli uomini sono qui, adesso, e non essendosi mai incontrati prima, pur volenterosi, non riescono a comunicare. Il pianismo iper impressionista di Tilbury non entra in rapporto col suono lacerato, slabbrato e dirompente della tromba. Le rispettive utopie non possono confrontarsi, e rimane il senso di una civiltà che implode nell’impossibilità di riconoscere nemmeno una minima base comune su cui provare a ricostruire un senso condiviso del mondo.
Che sia anche per questo che la musica che sta fuori dal circuito che produce business ha in buona parte smesso di generare pensiero e capacità di agire all’interno, insieme al contesto sociale e storico? Forse i termini “assoluto” e “individuale”, declinati contemporaneamente, andrebbero con qualche pudore messi da parte per un po’, in attesa che nel mondo torni a circolare almeno un’ipotesi di minima condivisione, di appartenenza, di partecipazione. Insomma, oggi serve altro. Servono musiche capaci di contagiare, e il contagio nasce dal contatto. E se due musicisti protagonisti da mezzo secolo non si sono mai frequentati prima dell’altra sera, un motivo ci sarà pure. Basta ascoltare quello che per tanto tempo e tanto impegno ci hanno raccontato, ciascuno a suo modo. Altrimenti il rischio è che un intero ambito musicale di legittima vocazione minoritaria si trasformi in riserva indiana, con tanto di assegnazioni dello stato centrale, acquisizioni tribali e casse di whisky lasciate lì come per caso, ma con il solo scopo di annebbiare il cervello di un popolo sconfitto.
Tra le musiche che si prestano all’equivoco di non avere radici e tradizioni alle spalle ci sono quelle più radicali, se per radicale si intende la volontà di spingere al limite estremo ogni intuizione. In questi territori i confini creati dalla lingua sembrano dissolversi, anche perché la lingua stessa può apparire priva di grammatica, di sintassi, di articolazione, somigliando sempre più all’immersione in un universo sonoro assoluto e individuale. Sembrano dissolversi, ma in effetti non è così.
Wadada Leo Smith è pervenuto, in una ricerca ultra quarantennale, a distillare una musica dove l’indagine sul timbro è al centro dell’attenzione, e il suono dello strumento in sé diviene espressione della dimensione più interiore dell’essere. Naturalmente anche la sua ricerca sta ben radicata dentro una storia, che non può prescindere ad esempio dal Davis più cupo del periodo elettrico. Se non lo conoscete (intendo Wadada) ascoltate Yo Miles!, firmato nel 1998 insieme al chitarrista Henry Kaiser, e troverete l’esplosione funk di qualche decennio fa ricomposta alla luce di quel che nel frattempo la musica afro-americana e non solo ha saputo inventare. Spiritual Dimension, di poco più di un anno fa, è tutto uno spostare più lontano - forse sarebbe meglio dire più dentro - i limiti della ricerca sonora; ma le tracce del passaggio sono chiare, le tappe quasi didascaliche nella loro necessità. Da Creative Music (1971) a oggi il percorso di Wadada Leo Smith è esemplare di una utopia tutta afro-americana. Il suo solo al festival Angelica di Bologna è perfettamente calato in questa idea.
Poi sempre, quella stessa sera accade quello che per decenni è stato inimmaginabile, impensabile, cioè che il trombettista si ritrova sul palco insieme al pianista John Tilbury, protagonista anche lui di una rivoluzione copernicana nell’ambito della ricerca timbrica sul suo strumento. Immenso interprete della musica di Cardew, Feldman e Skempton, ha reinventato il suono del pianoforte alla ricerca di una softness capace di portare l’ascoltatore a una dimensione di accentuata consapevolezza interiore, di ascolto trascendente, di ricerca di un’esperienza di rivelazione attraverso il suono.
Ma l’analogia con la ricerca di Wadada Leo Smith si ferma qui, al bisogno di sprofondare nell’interiorità individuale l’ascolto della musica. Il resto è la storia, fatta di oggetti concreti, materia viva, unico regno dove la libertà dell’uomo musicista possa esprimersi. E la materia che i due trattano proviene da pianeti diversi, da galassie lontane, e il miracolo non avviene. L’alchimia sperata non si realizza; gli uomini sono qui, adesso, e non essendosi mai incontrati prima, pur volenterosi, non riescono a comunicare. Il pianismo iper impressionista di Tilbury non entra in rapporto col suono lacerato, slabbrato e dirompente della tromba. Le rispettive utopie non possono confrontarsi, e rimane il senso di una civiltà che implode nell’impossibilità di riconoscere nemmeno una minima base comune su cui provare a ricostruire un senso condiviso del mondo.
Che sia anche per questo che la musica che sta fuori dal circuito che produce business ha in buona parte smesso di generare pensiero e capacità di agire all’interno, insieme al contesto sociale e storico? Forse i termini “assoluto” e “individuale”, declinati contemporaneamente, andrebbero con qualche pudore messi da parte per un po’, in attesa che nel mondo torni a circolare almeno un’ipotesi di minima condivisione, di appartenenza, di partecipazione. Insomma, oggi serve altro. Servono musiche capaci di contagiare, e il contagio nasce dal contatto. E se due musicisti protagonisti da mezzo secolo non si sono mai frequentati prima dell’altra sera, un motivo ci sarà pure. Basta ascoltare quello che per tanto tempo e tanto impegno ci hanno raccontato, ciascuno a suo modo. Altrimenti il rischio è che un intero ambito musicale di legittima vocazione minoritaria si trasformi in riserva indiana, con tanto di assegnazioni dello stato centrale, acquisizioni tribali e casse di whisky lasciate lì come per caso, ma con il solo scopo di annebbiare il cervello di un popolo sconfitto.
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