Il Teatro Real di Madrid diventa più spagnolo

Parla il nuovo sovrintendente Joan Matabosch, che succede a Gerard Mortier

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Le vicende che hanno portato Joan Matabosch a sostituire Gerard Mortier nella direzione artistica del Teatro Real di Madrid, lasciando quella del Liceu di Barcellona, sono state conseguenza della malattia che ha colpito il direttore belga e della necessità di un avvicendamento. Se le fasi del passaggio di consegna sono state piuttosto contrastate e conflittuali, con il rigetto, da parte della Commissione Esecutiva del teatro madrileno, della rosa di nomi proposta da Mortier per la successione e la repentina nomina del direttore catalano, alla fine c'è stata una ricomposizione con l'attribuzione a Mortier di un incarico di "consulenza": questo anche per gestire una programmazione che lui stesso aveva impostato fino al 2015 e per avere egli un contratto, difficilmente rescindibile, che va a scadere nel 2016.
Chiediamo a Joan Matabosch come si sente nel dover gestire questa ingombrante eredità, in questa fase di passaggio (prenderà le consegne con l'inizio del 2013 lasciando contemporaneamente il Liceu):
«Per me è un grande onore poter costruire il discorso artistico di questa casa, che è il Teatro Real, con un'eredità artistica così importante, come quella di Gerard Mortier, ma anche di chi lo ha preceduto come, Antonio Moral, Emilio Sagi, Garcia Navarro. Prendere in mano quanto è stato avviato da Mortier è per me una grande responsabilità: si è stabilito di attuare un progetto di continuità e così intendo fare, rispondendo a coloro che avevano ipotizzato un cambio radicale della sua programmazione. D'accordo con lui ci tengo a preservare l'idea di opera come forma d'arte, come un'arte che ci pone degli interrogativi, che ci parla di noi stessi, come arte viva non come una mera forma d'intrattenimento».
Condivide un'impostazione che privilegia una forte lettura politica dei contenuti di alcune opere?
«Dipende, ci sono opere che hanno già in sé gli elementi per una lettura politica, altre che l'avevano quando vennero scritte, mentre ci sono opere che non hanno niente a che vedere con il politico, anche se si può, per alcuni principi personali, tentare di leggerle politicamente. Compito del regista oggi è di decodificare l'opera, perché ci ponga degli interrogativi e ci inquieti in modo esattamente uguale di quando questa debuttò. Per me è basilare che un teatro presenti le opere, non come pretesto per trastullarsi nelle melodie di sempre: bisogna tener conto che queste melodie veicolano un significato e bisogna mettere in luce una volta per tutte questo significato».
Come intende proseguire la programmazione di Mortier, affrontando anche quei settori del pubblico e della critica nettamente avversi alla sua impostazione?
«Non è che intendo proseguire pedestremente il programma di Mortier. Ad esempio ho intenzione di far tornare al Real il belcanto, Bellini, Donizetti, ma anche Puccini, non si capisce il perché debbano essere tenuti lontani: è un repertorio che fa parte della storia di questo teatro, delle sue origini. Inoltre oggi ci sono artisti, che cantano questo repertorio, che non sono necessariamente di tipo ottocentesco, sono cantanti con una mentalità moderna e perfettamente al passo coi tempi. E per quanto riguarda i cantanti l'ambizione per il futuro è di avere a disposizione un ventaglio più ampio di voci di fama internazionale, perché non ha senso che non possiamo avere nessuna stella mediatica del momento».
C'è poi il capitolo registi.
«Bisogna aver chiaro che i registi hanno il compito di spiegare il significato delle opere, non di utilizzarle come veicolo di esibizione personale. La questione non è la quantità di cose che vengono cambiate rispetto all'iconografia tradizionale, ma se questi cambi sono pertinenti, adeguati a rivelare il significato dell'opera, il resto sono banalità!»
Quali apprezza e quali detesta?
«Posso dire che mi piacerebbe che alcuni, come Peter Sellars, continuassero a lavorare per il Real; ho apprezzato molto, ad esempio, come Peter Konwitschny ha trasformato il Lohengrin, qualche anno fa al Liceu, in maniera assolutamente geniale, preservando il senso di quello che Wagner voleva dire. Ma come metodo di lavoro ho sempre preferito, che il significato dell'opera fosse quello oggettivo, quello che non è accettabile è il puro esibizionismo fine a se stesso, poi posso accettare anche chi, con molta personalità, riesce a sedurti con un percorso diverso, in modo brillante e affascinante, perché no, io non sono un talebano!»
Per quanto riguarda la scelta di un direttore musicale?
«Stiamo valutando, ma non è imminente perché ora ci sono impegni perfettamente definiti che intendo rispettare».
Dal Liceu di Barcellona al Teatro Real: due realtà che lei conosce bene. Quali le affinità e quali le differenze?
«Teatri differenti che nascono quasi fratelli: il Liceu ha avuto una storia senza interruzioni di quasi 70 anni, il Real è stato più oggetto di chiusure, con una storia molto più accidentata. Però condividono una tradizione simile e inoltre da un po' di tempo stanno collaborando in forma molto stretta e nel futuro senza dubbio questa collaborazione verrà rafforzata».
Quali le differenze tra i due tipi di pubblico?
«A Barcellona abbiamo un pubblico con una maggior consuetudine nella tradizione dell'opera, a Madrid c'è un pubblico diverso, per questa storia un po' atipica che ha caratterizzato la vita di questo teatro; ciò di conseguenza ha determinato un'incidenza sull'educazione del suo pubblico».
E i modelli di gestione?
«Si assomigliano molto: sovvenzioni molto basse rispetto alla media europea, il 50% mentre il restante deve essere sopperito da risorse proprie; adesso queste sovvenzioni sono state tagliate del 33%. Ora con la crisi, le capacità di manovra del Liceu e del Real sono molto diverse, il primo è un teatro con molte spese fisse, una struttura molto più grande che include un'orchestra e un coro; il secondo ha una struttura molto più leggera e questo evidentemente gli permette un'azione molto più agile, in un momento di difficoltà come l'attuale».
Quale la quota di incidenza in maniera più o meno invadente del potere politico nelle due istituzioni?
«Diciamo che il Real era molto vulnerabile perché aveva una partecipazione pubblica, emanazione del Ministero della Cultura, poi da otto anni questo è cambiato, nel momento in cui la gestione fu presa dall'attuale presidente della Fundación Teatro Real, Gregorio Marañón, egli riuscì ad avviare un'autentica autonomia del teatro; anche se, in questo tipo di cose, non si può dire che tutto sia totalmente impermeabile alla politica. Nel caso del Liceu le cose erano curiosamente più facili perché le sovvenzioni pubbliche dipendevano da quattro amministrazioni diverse, il Ministero della Cultura spagnolo, il Governo catalano, l'amministrazione municipale e quella provinciale, pertanto essendo tutto molto suddiviso, questo paradossalmente dava una grande autonomia al teatro, perché realmente non c'era nessuno che poteva intervenire».
Quali le prospettive per il futuro, per una politica culturale più ampia e per arrivare a nuovi settori di pubblico? «È evidente che tutti i teatri hanno da preoccuparsi di ampliare il loro repertorio, con nuove opere, con un tipo di innovazione che ha da provocare, stimolare, educare, accompagnando i propri spettatori. Ma certo non è così ovunque: Madrid, Barcellona, Milano, Roma, Parma o Londra sono realtà culturali diverse. A Madrid ad esempio manca una tradizione di opera barocca e in tutta la Spagna c'è da colmare il gap dell'isolamento culturale, conseguenza della dittatura, che fece sì che molte delle novità del XX secolo, dei titoli della nuova estetica, non arrivassero o arrivassero col contagocce. Possiamo dire che tanto Madrid come Barcellona, hanno svolto una buona parte dei loro 'compiti' ma ancora ci sono opere importanti del XX secolo che non si sono mai viste, e questa evidentemente è una responsabilità del teatro. Un teatro che sicuramente deve essere più aperto verso un nuovo pubblico, che spesso è diffidente nei confronti del formalismo tipico di certi luoghi esclusivi. C'è bisogno di fare in modo che il consumatore di cultura meno fidelizzato, appassionato di letteratura, che frequenta i musei, così numerosi qui a Madrid, includa anche il teatro d'opera tra i suoi campi d'interesse e in tal senso l'istituzione deve fare uno sforzo importante per integrare questo pubblico».

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