Il pianista e compositore Simone Graziano con i suoi Frontal in Trentacinque, seconda uscita per Auand, la mette molto sul piano intimo, sia nell'esposizione dell'età anagrafica nel titolo, sia nella dedica alla zia che l'avrebbe iniziato alla bellezza. E di bellezza in questo disco ce n'è in abbondanza. Lavoro di straordinaria forza visionario-evocativa che ripercorre tracce del più inquieto jazz contemporaneo di matrice statunitense e le trascina in ambientazioni originali dove scrittura e libertà si solidificano in uno scenario estetico elegante, a tratti sofisticato, misterioso, mai stucchevole.
La formazione - David Binney sax alto, Dan Kinzelman sax tenore, Gabriele Evangelista contrabbasso, Stefano Tamborrino batteria - esprime una forza d'urto sonoro notevole, trame collettive e incastri scorrono come un fiume in piena che non trova mai il mare ma si rigenera ciclicamente nelle anse di assoli pungenti e di grande fascino. Trentacinque è uno di quei dischi che possiede la forza di aprire nuove strade, e Graziano fa da guida con pianoforte, Fender Rhodes ed elettronica. Con il pianista fiorentino abbiamo scambiato alcune riflessioni sul suo lavoro.
Frontal del 2013, che ai più sembrava un disco già compiuto nelle sue indicazioni di ricerca stilistica, dopo l'ascolto di Trentacinque appare invece un ottimo manifesto di intenti che questa ultima registrazione approfondisce e sviluppa in modo mirabile. È una lettura che condividi?
«Direi che è una lettura molto efficace. Penso che il motivo che mi spinge a fare questo lavoro sia quello di evolversi sempre, o quantomeno di provarci. Tim Berne una volta mi disse "quando un gruppo suona troppo bene un repertorio significa che è arrivato il momento di scrivere materiale nuovo... o di cambiare il gruppo". Per ora ho preferito intraprendere il primo percorso!».
Soprattutto la ricerca sonora qui assume un peso specifico alto, costante in tutte le ambientazioni. Sia dove vagano venature melodiche, strappi free, impasti sanguigni, anche nel rigore delle parti obbligate, nelle ripetizioni. Come lavori sul suono con i tuoi musicisti?
«Ho la fortuna di avere nel gruppo dei musicisti fantastici, ognuno di loro dotato di uno stile molto personale e originale. Ciò fa sì che quando scrivo penso al suono che li caratterizza, e cerco di dedicare loro gli spazi in cui possono meglio esprimersi. Prima di registrare Trentacinque abbiamo passato molte ore in studio a provare il materiale, data la complessità dei brani che avevo composto. Gran parte del lavoro è stato cercare di rendere fluido il materiale di cui disponevamo e di fondere il più possibile la scrittura con l'improvvisazione, di modo che non si potesse distinguere l'una dall'altra. Direi che abbiamo ottenuto un buon risultato».
Il tuo è un approccio molto "americano", nella costruzione dei brani, nello sviluppo di tempi obliqui e sospesi, come nell'astrattezza di alcune situazioni collettive. Quali sono i tuoi referenti stilistici?
«In questo disco in realtà ho cercato delle ispirazioni extra jazzistiche, penso a Flying Lotus, Autechre, i Radiohead, i Depeche Mode, J Dilla, Jon Hopkins, tanto per citarne alcuni. All'interno del jazz contemporaneo gli ultimi dischi che mi hanno molto colpito sono il trio di Tyshawn Sorey, Fourteen di Dan Weiss, Joshua Redman e i Bad Plus e Snakeoil di Tim Berne. Poi c'è il filone della contemporanea: Ligeti, Scelsi e Messiaen sono alcuni degli autori che mi ispirano maggiormente».
In Trentacinque il ruolo del tuo pianoforte risulta meno timido rispetto a Frontal, dove ti riservavi un ruolo di perno centrale di coordinamento (con un solo nel brano finale). Invece qui, anche con il Fender Rhodes, ti sei molto più esposto.
«Frontal aveva come idea formale di fondo il rapporto trio/solista, quindi il mio ruolo e quello della ritmica in generale era quella di sostenere Dan e Chris nelle loro improvvisazioni. In Trentacinque invece la musica è pensata dalla prima all'ultima nota per quintetto. In tal modo il rapporto trio/solista cade del tutto, anzi direi che cade proprio l'idea del solista: ognuno è al servizio della musica. Così facendo non esistono ruoli predefiniti, ognuno di noi può in ogni momento svolgere compiti diversi a seconda delle esigenze musicali. Penso che ciò sia un elemento necessario per lo sviluppo di un pensiero musicale e l'evoluzione di un gruppo. Dare delle regole a dei musicisti, come indicare chi fa il solo in una sezione, crea sempre delle gabbie e soprattutto determina in chi suona una sorta di noia, in quanto sa cosa accadrà e sa cosa deve fare. Non delimitando tali ruoli si evita la distrazione e la prevedibilità degli esecutori. Ciò rende, o dovrebbe rendere, la musica più viva».