Nel bene e nel male il 2016, fra morti illustri e il primo Premio Nobel a un autore di canzoni, ci ha costretto a riflettere sulla storia del pop, sulle sue traiettorie attuali e sul suo futuro. L’annus horribilis lo ha confermato: la generazione da cui tutto è partito, la più celebrata, è quella dei nati fra la guerra e il primissimo dopoguerra, fra Dylan (1941) e Bowie (1947).
Tuttavia, se fra 50 anni la specie umana sarà ancora su questo pianeta, probabilmente i nostri nipoti (se ancora si occuperanno di musica) riconosceranno finalmente Brian Eno (classe 1948) come una delle figure di punta di quella storia, come uno dei singoli attori di maggiore influenza sullo sviluppo della musica così come è oggi, e – probabilmente – come sarà domani.
Senza ripercorrere per l’ennesima volta il suo ruolo come produttore di dischi fondamentali, e le innovazioni in studio da lui popolarizzate e divenute oggi la prassi (recuperate il bel Come funziona la musica di David Byrne per approfondire il suo lavoro con i Talking Heads), Eno è sempre stato – a differenza di molti suoi coetanei – un musicista che ama pensare alla sua musica, che ama interrogarsi su quello che fa e calare il suo lavoro in una più ampia visione del mondo.
Almeno in apparenza, il suo ultimo lavoro Reflection rappresenta solo l’ultimo tassello di quella storia, in assoluta continuità. Per stessa ammissione del musicista, il disco rappresenta «l’ultimo lavoro di una lunga serie cominciata (parlando di uscite discografiche) con Discreet Music nel 1975», oppure con «il primo album Fripp & Eno nel 1973». Siamo dunque nel solco di quella che fu detta “ambient music”, inizialmente una sorta di raffinato arredo sonoro, versione artisticamente corretta della muzak: parlando di Ambient 1: Music for Airports, del 1978, Eno ha raccontato spesso la riflessione alla base di quell’idea. Com’è possibile che in architetture da milioni di dollari la costruzione del paesaggio sonoro sia delegata a speaker da quattro soldi che trasmettono musica a caso? Anche sulla scia di quella iniziale epifania, negli ultimi anni Eno ha approfondito (soprattutto in alcune fortunate installazioni) il concetto di “musica generativa”: una musica “creata” da un sistema, infinitamente ripetitiva eppure sempre diversa.
Con il passare del tempo, quelle musiche e quelle idee sono andate oltre le intenzioni originali, forse contro le aspettative dello stesso Eno: non arredo sonoro ma «thinking music»: «Ora mi accorgo – spiega il musicista – che la gente sta usando alcuni di questi album nel modo in cui li uso io – come spazi provocatori per il pensiero». Musica per pensare, dunque – e musica per pensare di musica.
Reflection costringe infatti a riflettere sulla forma e sul suo superamento. Come lavoro di musica “generativa”, l’opera (se ha senso parlare di “opera”) è potenzialmente infinita, è la messa in atto di un gruppo di suoni governata da alcune regole: «Dato che quelle regole sono probabilistiche, il pezzo si sviluppa in modo molto diverso ogni volta che viene attivato». Reflection, insomma, altro non è che uno dei possibili dispiegamenti di quelle regole.
Come suona? Esattamente come ve lo aspettate, e questo è forse il suo limite maggiore. Un tappeto di suoni eterei, aperto da un confortante intervallo di quarta discendente (sol-re) che ritorna qui e là: musica liquida, rilassante, che si sviluppa senza soluzione di continuità. Piacevole, come piacevole deve essere, Reflection scorre via in un’unica traccia da 54 minuti.
La novità, non certo assoluta, riguarda piuttosto il formato in cui questa musica viene diffusa. Reflection “esiste” infatti in forma di app per iOS, realizzata con il collaboratore di lunga data di Eno Peter Chilvers. Un formato già sperimentato da Eno (ad esempio con la app Bloom, di qualche anno fa), ma qui portato all’estremo. Il formato-app, già tentato da alcuni musicisti negli scorsi anni, non sembra per ora aver ottenuto particolari riscontri. Se sarà il futuro della musica, o se fra 50 anni sarà ricordato come una bizzarria come la quadrifonia o lo Stereo 8, solo il tempo ce lo dirà. Per ora, il CD o il doppio vinile, se pur frutto di un compromesso e di una scelta dell’autore (del resto, gli autori servono a quello) sono l’unico salvagente nel mare dell’infinita musica liquida.