Lydia Goehr
Il museo immaginario delle opere musicali. Saggio di filosofia della musica
A cura di Lisa Giombini e Vincenzo Santarcangelo
Mimesis, Milano-Udine 2016, 416 pp., 28 €
Qual è la differenza fra un’esecuzione della Quinta di Beethoven e la sinfonia stessa? Che cosa significa “essere fedeli” a un’opera? Perché per suonare un brano di musica classica si comincia dalla prima nota sullo spartito e non è consentito improvvisare o battere il piede?
Sono domande meno oziose di quello che sembrano – sempre ammesso che non si voglia aderire a quell’assurdità, che spesso si sente circolare a mo’ di battuta, secondo cui sarebbe vano e inutile “scrivere di musica”. In realtà, le molte domande (con qualche risposta) che attraversano il libro più celebre della filosofa della musica Lydia Goehr non interessano, o non dovrebbero interessare, solamente ai musicologi, ai filosofi e ai nerd degli studi culturali. Al contrario, il tema centrale de Il museo immaginario delle opere musicali riguarda da vicino tutti quelli che la musica la fanno, la scrivono (e, naturalmente, ne scrivono) o la ascoltano.
Uscito nel 1992 come sviluppo della tesi di Dottorato della Goehr all’Università di Cambridge, e ripubblicato in una nuova versione riveduta ed estesa nel 2007, Il museo immaginario delle opere musicali è uno di quei libri che si è ricavato un posto d’onore nella letteratura musicologica. Uno di quei libri, per intenderci, che molti si sentono obbligati a citare (soprattutto all'estero, decisamente meno in Italia). Bene allora che Mimesis abbia finalmente messo a punto l’edizione italiana, curata e tradotta (molto bene) da due giovani studiosi, Lisa Giombini e Vincenzo Santarcangelo.
Il libro affronta quello che l’autrice chiama «concetto-di-opera», e la sua centralità nel modo in cui la musica (e non solo la musica classica) è pensata e fruita nella nostra cultura. «Le opere – scrive la Goehr – non possono, in senso diretto, essere oggetti fisici, mentali o ideali. Esse non esistono come oggetti concreti o fisici; non sono idee private esistenti nella mente di un compositore, di un esecutore o di un ascoltatore, e nemmeno esistono nel mondo eterno delle forme increate o ideali. Non sono identiche, inoltre, a nessuna delle loro esecuzioni. Le esecuzioni sono situate nel tempo reale, le loro parti si succedono una con l’altra. La dimensione temporale delle opere è invece differente, le loro parti esistono simultaneamente». Che cosa sono, dunque, le opere? Che cosa significa e implica parlare della musica in termini di «opere musicali»?
Nella sua ricerca, che si svela poco a poco (la struttura tradisce la costruzione di una tesi di Dottorato), la Goehr segue due approcci per indagare il concetto-di-opera e i suoi limiti: uno che definisce analitico, e uno storico. Il libro, di fatto, mira a dimostrare i limiti dell’approccio analitico (l’impossibilità, in sostanza, di comprendere il concetto-di-opera con la sola analisi, cercando di descriverlo come oggetto) e i vantaggi dell’approccio storico. In questa prospettiva, la Goehr riconosce l’origine del concetto-di-opera alla fine del settecento, e l’ottocento come il secolo in cui esso è diventato quello che conosciamo oggi.
La prospettiva è quella della filosofia della musica, ed è certo affascinante che l’autrice arrivi, attraverso questo accidentato percorso, a risultati molto familiari ad altre discipline che si occupano di musica. Anzi, a risultati che – in molti casi – già sono e sono stati il punto di partenza di altre discipline: l’etnomusicologia, gli studi sulla popular music, l’antropologia della musica…
Un libro utile, stimolante, non sempre facile ma che – a dispetto dell’età e del contesto in cui nasceva – è invecchiato molto bene. Soprattutto, Il museo immaginario delle opere musicali è un libro che ha ancora delle cose da dire, che propone ancora letture e ancora apre percorsi inesplorati. Lo dimostrano, ce ne fosse bisogno, i due saggi dei curatori che completano l’edizione italiana: l’introduzione di Lisa Giombini (una utile guida alla lettura e al pensiero della Goehr) e la postfazione di Vincenzo Santarcangelo (Opera istantanea: corpo, memoria, improvvisazione), che affronta il tema dell’improvvisazione (e in particolare dell’improvvisazione eterodiretta, alla Butch Morris) cogliendo uno spunto lanciato dalla Goehr nel capitolo ottavo: ovvero, l’idea che il concetto-di-opera sia inestricabilmente collegato al concetto di improvvisazione.