È da quando poesia e canzone sono diventate due cose diverse (tralasciando la remota era in cui spesso si sovrapponevano) che ci si interroga se sia opportuno o meno musicare le poesie. A dispetto dei detrattori della poesia musicata – Eugenio Montale in prima linea – la pratica è rimasta piuttosto diffusa, pur con risultati alterni, e il tema è affascinante per molti. Forse perché sembra poter dare una risposta parziale a uno dei misteri più misteriosi sulla canzone: nasce prima il testo o la musica? Cosa “influenza” cosa? La musica è già dentro le parole, o è vero il contrario?
Fra i migliori esiti recenti in Italia, è uscito l’anno scorso Un mistero di sogni avverati (Brutture Moderne, distribuzione Audioglobe) di Massimiliano Larocca, in cui il cantautore fiorentino ha messo in musica alcune poesie dei Canti orfici di Dino Campana. È un lavoro interessante e degno di essere approfondito, quello di Larocca, anche per la naturalezza con cui testi scritti cento anni fa si incastrano e filano in un contesto sonoro folk-rock, fra l’Americana, il folk italiano, inserti di Argentina e altro ancora. La naturalezza del risultato, in questo genere di operazione, va accolta come un grande successo e spinge anche a rileggere con orecchio diverso gli originali “muti”…
Il pregio del lavoro, soprattutto, è la centralità che viene lasciata alle parole di Campana, a cui la musica sa riservare il giusto spazio, facendo un passo indietro e non rubando mai la scena. Il merito è anche dei musicisti scelti da Larocca come compagni di viaggi: Riccardo Tesi, a cui il cantautore si è rivolto per produrre e supervisionare il progetto, e i Sacri Cuori (Antonio Gramentieri e Diego Sapignoli), oltre agli ospiti Hugo Race, Nada e Cesare Basile.
Abbiamo chiacchierato con Massimiliano Larocca per approfondire il suo lavoro su Campana, che sta portando in giro per l'Italia in queste settimane.
Partiamo dalla domanda più ovvia: perché Dino Campana?
«Per motivi personali, in realtà: mi sono appassionato a Campana in un’età insospettabile, l’adolescenza, quando cominci a scoprire il rock, la letteratura… e cominci ad amare soprattutto quelli che sono morti male! All’epoca facevo ragioneria, ho avuto la fortuna di avere una professoressa di lettere che ha compreso il mio caso umano di letterato finito fra i ragionieri, e che mi fece conoscere Campana. Rispondeva a tutta una serie di stereotipi che andavo cercando, e raccontava luoghi che a me erano molto familiari: Firenze, il Casentino, luogo di provenienza della famiglia di mia mamma… Scoprii questa poesia visionaria, “elettrica” – termine che ricorre moltissimo in campana, e mi colpì – che non parlava di città lontane e mondi fantastici ma di luoghi a me conosciuti… Naturalmente, con gli strumenti che avevo all’epoca per leggere i Canti orfici: con il tempo ho capito di quanto il mio primo approccio fosse naïf».
E come è cambiato il tuo approccio, nel tempo? «Sono partito dal Campana personaggio, oggi vedo meno l’uomo e sento di più la poesia. Il cambio di prospettiva passa dal lavoro musicale, che è stato fatto non in tempi recenti ma nel 2000-2001… quando feci questo primo “atto d’amore” con il mio Tascam 4 piste, in casa. Già all’epoca giravo con un piccolo spettacolo su Campana: queste sono le basi su cui abbiamo lavorato 15 anni dopo. Campana parlava della sua come di “poesia europea, musicale, colorita”. Lavorandoci musicalmente ho trovato la mia personale chiave di accesso a questa definizione. Riccardo Tesi mi ha sempre rimproverato di essere troppo “americano”, nel disco i colori musicali sono molti e diversi, e – nel timbro e nel gusto – mi sembra si metta un piede più pesante in casa nostra».
Poeti e musicisti hanno spesso discusso sull’opportunità di musicare la poesia, di aggiungere melodie a qualcosa che ha (o dovrebbe avere) un ritmo già suo… Dimmi di più su come hai lavorato tu.
«All’epoca, nel 1999, la compagnia teatrale Chille della balanza, a Firenze, cercava musicisti e attori per lavorare sui Canti orfici. La compagna ha sede nell’ex città-manicomio di San Salvi, una specie di città nella città, dove Campana “soggiornò” per un anno: scrissi delle canzoni, che vennero fuori subito, molto immediate. Io credo molto nell’artigianato della musica, ma questo è uno dei pochi episodi in cui le cose mi sono venute di getto, senza pensarci: i brani sono tutti nati in un mese, un mese e mezzo. Sfogliavo pagina per pagina i Canti orfici e provavo a improvvisare, non c’è stato molto lavoro di post-scrittura, post-produzione. Molte delle poesie erano già canzoni in nuce: pensa ad esempio a “La petite promenade du poète”, che apre il disco:
Me ne vado per le strade
strette oscure e misteriose
vedo dietro le vetrate
affacciarsi Gemme e Rose.
È indubbio che Campana avesse un’idea musicale, un ritmo in testa. A volte ti dà addirittura il ritornello: è già sulla pagina, per chi ragiona con la struttura della canzone in testa. In questo senso credo che Campana sia l’unico poeta in Italia che ha una sua musicalità esplicita».
Come avete lavorato sulle musiche, e perché hai scelto questi collaboratori?
«Ho cercato di creare una storia nella storia, una storia che corresse parallela alla storia principale di Campana. Campana era di Marradi, sul versante romagnolo dell’Appennino, e ho pensato di unire metà toscana e metà romagnola. E poi nei Canti orfici si parla di Sudamerica, di Genova, oltre che di Romagna e di Toscana, e ho cercato di creare questo “luogo” della sua poesia. Riccardo Tesi porta con sé un’idea di toscanità molto importante, una toscanità contemporanea – e questa toscanità che ho sempre ritrovato in Riccardo la riconoscevo anche in Campana. Da tempo, poi, collaboro con Sacri Cuori: anche loro hanno un forte sbilanciamento sull’America, ma hanno dentro la tradizione orchestrale romagnola, che cerca di ricreare le dinamiche del liscio, della tradizione della loro terra. Si è scelto di lavorare senza basso: una sorta di piccolo trio, più la mia voce, molto particolare».
E per quanto riguarda gli ospiti: Nada, Cesare Basile, Hugo Race…
«Non sono stati messi per fare la lista della spesa. Credo che la poesia di Campana viva di tante voci diverse, per cui non volevo che la mia fosse l’unica voce del disco. Per cui ho assegnato ad altri poesie che pensavo si ritagliassero bene ai loro personaggi. Per esempio, Nada legge “La sera di fiera”, una poesia molto nota che racconta come ci si sente a sentirsi soli in mezzo a tante persone, una fragilità che io ho sempre letto in Nada. Hugo Race legge “Il russo”, che parla di uno strano personaggio incontrato da Campana, molto adatto a quella voce… e Cesare Basile si lancia nel verso libertario di “Poesia facile”, che mi pare si adattasse perfettamente a lui».
Domanda di rito: progetti futuri?
«Questo progetto su Campana girerà ancora un po’ nel 2017, e ci sono diverse date in programma. Viviamo in un momento in cui il disco è un contenitore che si sta svuotando, e mi sono reso conto che lavorando con un concept forte – in questo caso con un personaggio forte – c’è un’altra attenzione… per cui sono un po’ in difficoltà all’idea di tornare a lavorare su un disco di canzoni, e questo mi fa soffrire: io credo ancora ai dischi con le belle canzoni dentro. Questo disco è andato bene sotto molti punti di vista al punto da mettermi in crisi…».