Antonio Dimartino e Fabrizio Cammarata: siciliani, i due sono esponenti di quella nuova leva di cantautori italiani di cui spesso si parla molto, e quasi sempre a sproposito.
Anzi: se i due a quella leva appartengono, ne rappresentano la possibile redenzione, la possibilità di andare oltre il provincialismo spinto e gli scazzi generazionali. Di scrivere qualcosa che rimanga nella canzone italiana, che non sia puro “spirito del tempo”, con tutti i limiti e i vantaggi del caso (questo è vero soprattutto per Dimartino, che scrive in italiano e con ambizioni grandi; qui la recensione dell’ultimo disco).
Il recente progetto in duo Un mondo raro è un progetto strano, deliziosamente lontano dalle mode – appunto – della nuova leva cantautorale, con un piede ben piantato nel passato e con ampie possibilità di ramificazioni futuro: concepire un disco (che esce per Picicca) e un libro (per La Nave di Teseo) su Chavela Vargas è, in effetti, operazione decisamente demodé. Sia perché demodé è il personaggio di Chavela Vargas, icona della canzone messicana nel secondo dopoguerra – e in seguito icona gay, amante di Frida Kalho, poi “riscoperta” da Almodòvar negli anni Novanta. E sia perché non è poi così comune fra i giovani musicisti italiani guardare a modelli musicali e a storie lontane dal “mainstream” angloamericano. Per giunta, andando in loco a registrare e incontrare persone: dai Macorinos, musicisti della Vargas (che suonano nel disco) a persone e personaggi della vita della cantante. Una storia che se l’avessero fatta musicisti americani o inglesi, sarebbe già sulla copertina di Songlines.
Le canzoni di Un mondo raro riportano alle stesse radici storiche delle musiche di cui la Vargas era sublime interprete: la ranchera messicana, un genere di grande successo in Messico soprattutto negli anni Cinquanta ma ampiamente globalizzato (con successi in tutto il continente americano, e anche in Europa e in Italia). È un elemento che oggi si tende a dimenticare, nella convinzione che l’unica popular music globale sia quella cantata in inglese. Le canzoni di Chavela Vargas ci ricordano invece di un’epoca in cui non era (ancora) così, e in cui la “world music” non doveva necessariamente transitare dai grandi porti dei paesi anglofoni.
L’operazione di Dimartino e Cammarata, quasi un po’ a sorpresa per chi ascolta, va a scoprire proprio questo: le traduzioni delle canzoni – semplici, lineari, eleganti – svelano nei pezzi della Vargas in un ambiente molto italiano, anche come armonie e soluzioni melodiche. Potrebbero essere, senza problemi, brani di Mina, o di Endrigo, o di qualche altro cantante e cantautore degli anni Sessanta italiani. Canzoni non messicane (o italiane), ma internazionali, di gusto internazionale – e, anche per questo, deliziosamente senza tempo.
Abbiamo fatto qualche domanda ad Antonio Dimartino per scoprire la storia dietro Un mondo raro.
La domanda più ovvia: come avete scoperto Chavela Vargas, e perché fare un disco su di lei, in italiano, in questo momento?
«È stato Fabrizio a incuriosirmi: nei suoi concerti faceva “La llorona” una delle canzoni più conosciute di Chavela, qualche anno dopo mi propose di seguirlo in Messico dove lui stava andando a girare un road movie proprio su quella canzone, l’incontro con la sua voce è stata una specie di iniziazione per me».
Raccontami come avete registrato il disco. Come siete arrivati ai Macorinos, come avete lavorato insieme? Nel disco si sentono anche degli scambi di battute, immagino presi dalle session di registrazione…
«Il disco ha avuto due fasi: la prima, che ha caratterizzato il suono del disco, si è svolta a Città del Messico, in uno studio insieme ai Los Macorinos, i chitarristi storici di Chavela. Con loro abbiamo condiviso giorni bellissimi e intensi, erano molto incuriositi dal nostro lavoro. La seconda fase è avvenuta a Palermo: qui abbiamo coinvolto altri musicisti per finalizzare le canzoni con percussioni, trombe e pianoforti».
Parliamo delle traduzioni dei testi. Come avete lavorato? Che problemi pone lo spagnolo? La mia impressione, già ai primi ascolti, è che molti brani suonino molto “italiani”, molto canzone anni sessanta. Sono brani che potrebbero essere usciti da un disco della Ricordi o della RCA, magari di Mina o di Endrigo, sia per le parole, il lessico, che per come si sviluppano le melodie, così ariose… È qualcosa che avevate previsto?
«Assolutamente d’accordo. Le canzoni nel loro lessico e nella loro melodia hanno un sapore molto italiano degli anni Sessanta, le traduzioni sono state molto semplici e immediate. Laddove abbiamo riscontrato dei termini troppo “messicani” abbiamo direttamente evitato di tradurre per non cadere nel grottesco, ad esempio una canzone come “La llorona” è intraducibile in italiano».
Parlando invece del romanzo-biografia: quali sono state le vostre fonti? Quanto è una “vera storia” e quanto è romanzo, la vostra personale idea di Chavela Vargas?
«Le fonti sono assolutamente dirette, amici di Chavela, la badante, i suoi musicisti, la sua biografa, la gente di Città del Messico e di Veracruz. Siamo partiti da aneddoti e fatti veri per arrivare a costruire anche situazioni immaginarie. Io penso che Chavela Vargas possa insegnare molto alle nuove generazioni, la sua è stata una vita caratterizzata dalla libertà e oggi si è un pò perso il senso verso della parola libertà».
Il libro, il disco. E adesso che succede?
«Adesso stiamo portando in giro uno spettacolo teatrale in cui raccontiamo la sua vita attraverso la festa dei morti: la Sicilia e il Messico sono gli unici due posti dove si festeggiano i morti il 2 novembre».
Chavela Vargas a parte, che cosa gira nel vostro iPod (o qualunque cosa usiate) in questi giorni? Questa di Un mondo raro è un’esperienza che potreste ripetere, alla ricerca di altri “miti”?
«Nel mio molto tropicalismo al momento, ci siamo detti con Fabrizio che avremmo portato avanti un altro progetto simile solo se avessimo trovato un personaggio all’altezza di Chavela o una storia altrettanto forte».