Giuseppe Taddei 1916-2010

Il baritono è morto il 2 giugno

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Capitava negli anni '80 e poi ancora negli anni '90 di girare per teatri grandi e piccoli e incontrare ripetutamente il suo nome in locandina: «Possibile? ancora Giuseppe Taddei?». Ed anche i melomani di tre o quattro generazioni più giovani potevano così conoscere dal vivo la sua arte. Dal 1936 (un Araldo nel Lohengrin all'Opera di Roma, mentore il solito Tullio Serafin) al 1995 (il Gianni Schicchi dell'addio a Chiavari: lui era nativo di Genova, 1916) sono sessant'anni netti di carriera professionale: un vero record! Quando si enumerano i grandi baritoni di quegli anni (ma quali anni? quelli di Titta Ruffo e Gino Bechi, Tito Gobbi e Bastianini, Cappuccilli e Leo Nucci tutti insieme!), il nome di Taddei non viene mai in mente per primo, e a torto, perché la qualità vocale e la perizia tecnica non erano inferiori a nessuno. In più si aggiunga la versatilità scenica, che gli consentì sin dai primi anni la doppia carriera di baritono drammatico (Rigoletto, Jago, Scarpia, Gérard) e di buffo dapprima "cantante" poi "caricato" (Belcore e Dulcamara, Malatesta e Don Pasquale, Figaro e Bartolo), in un elenco di personaggi virtualmente senza fine. Se gli esiti nelle parti serie sono ancor oggi oggetto di ammirazione incondizionata, i personaggi comici risentono talvolta di sbavature caricaturali tipiche della sua epoca, come nel pur celebrato Figaro mozartiano registrato in disco con Giulini. Il corpo della sua voce andò ampliandosi nel tempo, contrastando certa innata debolezza nell'acuto che gli faceva raggiungere le vette estreme secondo l'antica scuola di canto: schiarendo cioè il suono anziché inscurendolo per aumentarne la potenza. In tal senso, per il gusto italiano dell'epoca, fu sempre preferito in Donizetti piuttosto che in Verdi, nel comico che non nel drammatico; e a tali preferenze si deve forse il suo difficile rapporto con il Teatro alla Scala, che sostanzialmente lo ignorò. Le cose andarono diversamente all'estero. Attivo nei teatri di tutto il mondo, Taddei mentenne un rapporto privilegiato con la Staatsoper di Vienna, dove si esibiva regolarmente con successo ancora settantenne. È in quell'ambito che maturò il particolare sodalizio con Herbert von Karajan, culminato in un tardivo Falstaff salisburghese (1980 e 1982), caratterizzato programmaticamente da intonazioni "parlanti" piuttosto che "cantanti", e per questo assai discusso fra i sostenitori di un teatro ormai in via di estinzione e i fautori di nuove istanze interpretative. In quel Falstaff, l'ultima sua importante produzione discografica, si riassume per molti aspetti la gloriosa carriera di Giuseppe Taddei. (Marco Beghelli)

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